martedì 20 settembre 2011

i (101) Programmi riprenderanno il più presto possibile

"Probabilmente vedremo due computer su ogni scrivania prima ancora di avere due automobili in ogni garage"

Questa frase non è stata scritta ai giorni nostri ma neanche alla fine degli anni '70 o nei primi anni '80. Questa frase è apparsa sulle colonne dell'edizione serale del New York Journal nel lontano 1965, e dietro quella profezia non si nascondeva la figura di Steve Jobs né quella del suo coetaneo Bill Gates (entrambi ancora poco più che bambini di dieci anni all'epoca); quelle parole si riferivano ad una macchina tanto rivoluzionaria quanto sconosciuta alla maggior parte di chi oggi usa quotidianamente un personal computer, la Programma 101, prototipo vero e proprio del primo PC realizzato da un italiano visionario e riservato, Pier Giorgio Perotto, assecondato da un'altro Italiano altrettanto visionario e illuminato e maggiormente noto ai più attempati, Roberto Olivetti.

Sul perché la Storia non abbia consegnato a Perotto, Olivetti e la loro P101 il giusto posto nel memoriale delle invenzioni più importanti del XX secolo si possono fare molte ipotesi: la mancata capacità finanziaria di una piccola azienda, troppo piccola per sfidare la ragione e abbracciare l'utopia della rivoluzione informatica, la scarsa propensione degli italiani (pre Silvio Berlusconi) a "sapersi vendere", la mancata dose di fortuna che accompagna da sempre ogni idea capace di uscire dalla testa del suo creatore e di entrare nel cuore della gente.

Tante ipotesi e una sola certezza: senza Olivetti e senza Perotto i tempi che ci hanno avvicinato alla rivoluzione digitale sarebbero stati più lunghi.

Questo post non vuol tingersi di nostalgia e non mira a raccontare di come eravamo belli e pionieri, con le mani in tasca e il sorriso sul volto, capaci di pensare al futuro semplicemente concentrandosi sul presente, ma tant'è che non sarò certo io a fermare le mie mani e la loro voglia di dar forma e sostanza ai miei pensieri.

La storia della P101 è la storia di un Paese che ha saputo arrivare prima degli altri su molti campi, che ha saputo vivere e far vivere del proprio genio, ma che non ha poi colto la vertiginosa velocità con la quale si è avvicinata la frontiera della società globalizzata, dove sempre più spesso occorre saper stare sul mercato ancor prima di rivoluzionarlo.

Ho sempre coltivato il desiderio di guardarmi alle spalle, è una deformazione personale che mi ha accompagnato negli anni del liceo e ha preso definitivamente possesso di me ai tempi dell'Università. Adoro la Storia e quello che ha da raccontarci, le terribili pagine di sofferenze che hanno contraddistinto ogni popolo, e le rassicuranti pagine che ancora oggi ci fanno dire che rialzarsi è sempre possibile.
L'elogio della Storia ha la sua massima aspirazione nel voler comprendere il Mondo di oggi attraverso gli avvenimenti di ieri. Il tutto poggia sulla convinzione che la Storia non è destinata a tingersi di toni seppia e a raccontarci con una fotografia di parole un Mondo che non c'è più. In quelle pagine, in quelle righe, nei documenti polverosi degli archivi e nei libri di cui sono stipate le nostre biblioteche non c'è il nostro passato, ma il nostro futuro. Solo comprendendo ciò che eravamo potremmo sperare di metterci alle spalle questo medioevo contemporaneo dove il resto del Mondo ci guarda con sarcasmo e ironia.

Per far questo non servono nuovi Perotto, non serve scomodare la pila di Alessandro Volta o la radio di Marconi, il telefono di Meucci o il cannocchiale di Galileo, la vera invenzione che potremmo "scoprire" in maniera collettiva è quella di essere un popolo che ha ancora tanto da dare e raccontare, e per farlo non deve per forza rivolgersi alla Storia, forse basterebbe solo conoscerla.

Cultura e Formazione sono investimenti che non potranno mai essere declassati alla voce "spese". Solo la miopia di governanti ragionieri può capitalizzare al ribasso una caratteristica intrinseca del nostro essere italiani, nata prima ancora della nostra giovane Italia.

Lucio Dalla cantava nel '70 che "l'impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale", e io pazientemente e a braccia conserte aspetto che torni la normalità, perché se mai mi accorgessi che tutto questo non è destinato a finire, beh, allora mi ricorderei di essere, ancor prima di Italiano, cittadino del Mondo. Magari avrei piacere di farmi un viaggio negli Stati Uniti d'America per incontrare un'altro italiano che a suo tempo decise che il futuro se lo sarebbe andato a cercare oltre Oceano: Federico Faggin. Chi è? Semplicemente l'inventore del microprocessore, un genio, ma pur sempre italiano, non chiedetegli di sapersi vendere. Da noi lo sanno fare solo le scatole vuote.

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