lunedì 31 ottobre 2011

undici e poi dodici e poi tredici

A volte capita che davanti ad un foglio bianco si abbia la voglia di far prevalere l'immacolatezza di quel candore piuttosto che la volontà della penna. A volte capita che di fronte ad una schermata, anch'essa bianca, vinca la pigrizia di riempirla cercando parole di altri piuttosto che farle uscire da sé.

A volta capita di trovarsi davanti ad un foglio che una volta era sicuramente bianco, ma che prima di arrivare nelle tue mani qualcuno a contribuito a renderlo diverso, ad arricchirlo con pensieri e frasi che hanno la capacità di bussare alla tua testa e di chiedere il permesso di entrare, con intelligenza e sorpresa, e con un modo di presentarsi che invita non solo a farle entrare in testa, ma anche nel cuore.

Non parlo in astratto, ma concretamente mi riferisco al foglio che i ragazzi del Progettoundici hanno distribuito nelle edicole di Fermignano in questi giorni.
Non un giornale, ma un vero e proprio foglio formato A3 che lascia poco spazio alla grafica e alla creatività artistica perché la vera creatività sta in ciò che c'è scritto.
Si parla di Fermignano, si parla di noi che viviamo a Fermignano, si parla di come vorremmo e potremmo vivere Fermignano, e si parla del paesaggio interiore che ognuno di noi porta con sé, citando Eugenio Montale.

Nel Progettoundici ho visto il coraggio di esprimere opinioni e mettere sul tavolo punti di vista senza il timore di doversi scrollare di dosso etichette o di doversi riparare da attacchi provenienti da ogni angolatura, che sia destra o sinistra.
Parlare di política non parlando il politichese è possibile, come è possibile avere idee e visuali che non dipendono da comitati di sezione né tantomeno da direzioni sovracomunali.

Si parla lasciando tracimare l'amore per il proprio paese che è anche e soprattutto l'amore per il proprio Paese, si parla del fatto che non esiste la possibilità di spezzare con un taglio netto il confine tra bello e brutto, lo fa prendendo ad esempio l'opera con la quale la precedente (e attuale) amministrazione ha contraddistinto la propria copertina di propaganda elettorale. Si parla quindi della Scalinata, o del Teatro all'aperto, o di quell'ibrido che ne viene fuori dal punto di vista lessicale se si lascia spazio all'opinione di ognuno degli oltre ottomila abitanti di questa cittadina.

Si parla chiaro, si dice che una scalinata è tale se è possibile salire o scendere da ogni centimetro di essa, e si va oltre la mera definizione architettonica. Si dice che un Teatro all'aperto è tale quando il pubblico si siede sui gradoni (una volta gradini) e osserva lo spettacolo dall'alto al basso e non il contrario (e per pignoleria si tratterebbe comunque di anfiteatro e non teatro). Si parla del fatto che non ha senso mettere sulla stessa bilancia ciò che c'era prima e ciò che c'è adesso.

Ma parlando della scalinata si scalano piani che in questo mondo spesso non sono molto popolosi né popolari, si parla della capacità di ognuno di noi di pensare ad altre categorie da affiancare (e certo non sostituire) al concetto bianco/nero di bello e brutto, e lo si fa non parlando a noi stessi ma usando quel Noi per provare a riattivare una coscienza civica che esce dalle proprie case e si riversa in quelle strade dove Gaber affermava che solo lì si può trovare l'unica salvezza.
Scendere in strada? No, salire in strada per osservare, capire, parlare, confrontarsi e condividere, senza steccati ideologici né barriere mentali, lo si può fare partendo da un foglio bianco, da un monitor anch'esso bianco, ma soprattutto da un animo bianco, colore della genuinità di chi non ha secondi fini e con unico obiettivo la possibilità di sentirsi meno soli, in un mondo migliore. Non siamo solo numeri.

giovedì 27 ottobre 2011

CialTrony... Ovvero come passare dalla ressa alla rissa


da "Il Messagero.it" del 27/10/2011
"Oltre ottomila persone hanno preso d’assalto il nuovo centro commerciale Trony di Roma, vicino al ponte Milvio, mandando in tilt il traffico. Studenti, liberi professionisti, impiegati, disoccupati, tutti a caccia del prodotto messo in vendita a prezzi stracciati per promuovere l’apertura del maxi negozio. Una notte in fila. La piccola folla che si è accampata ordinatamente fuori le porte fin dalle11 di ieri sera si è gonfiata a dismisura con il passare delle ore: alle 9 del mattino è scattata la ressa. Decine di persone hanno tentato di scavalcare le transenne: «Sono stati attimi di panico, sono volati calci e pugni, qualcuno ha infranto un vetro del negozio a colpi di casco: due ragazze sono state letteralmente calpestate dalla folla, e una signora ha avuto un attacco di panico»
Tutto si può In Italia, a Roma in particolare. Per reclamizzarsi una nota catena commerciale manda un depliant con offerte allettanti, ma solo per un determinato negozio e per un numero limitato in quantità di articoli. Il risultato? si aprono le cateratte degli illusi che dalla sera prima si mettono in coda per l'accaparramento. Ma se una pioggia abbondante può essere neutralizzata pulendo i tombini, cosa si può fare in una città di 3 milioni di abitanti se tutti decidono che sono interessati a tali offerte? Sarebbe ora di mettere fine a tali sistemi di offerta che, con limitato costo per l'azienda rispetto alla ricaduta pubblicitaria, poi producono disagi se non danni alla comunità.
Quante volte vi è capitato di entrare in un supermercato attirati da allettanti sconti per poi scoprire che il prodotto è terminato? Il rimedio? semplice: l'offerta è contrattualmente vincolante nei confronti dei clienti per tutta la durata temporale della stessa e per un numero illimitato di pezzi. In caso di esaurimento si procederà a raccogliere le prenotazioni alle identiche condizioni. Troppo oneroso? allora non si fanno le offerte, si abbassa semplicemente i prezzi della merce.
Con i propri soldi la gente può fare quello che vuole, la libertà sta anche nel decidere di spendere nella maniera più voluttuaria e indefinita anche quello che paradossalmente non si ha in tasca (basta affidarsi a una Banca che si fida di te dandoti un Fido). Si compra a credito, si fanno rate per Tv, Computer, cellulari, vacanze...
Lavorare in un supermercato è una esperienza sociale unica. Se si ha la pazienza di osservare e la voglia di ascoltare, si riesce a realizzare un quadro concreto su quella che è oggi la situazione economica delle famiglie del nostro territorio; prima dell’Istat, prima del rapporto depito|Pil.
La corsa sfrenata all’offerta del megastore romano, il ricorso sempre più insistente a una spesa pseudo intelligente, nascondono però l’inquietudine di chi non è pronto a rinunciare a niente di fondamentale per il nostro attuale stile di vita.
Gente che entra con jeans da 200 euro e si lamenta per l’aumento della pasta di semola. Gente che fa incetta di prodotti in “due per uno” e che probabilmente dovrà fare uno sforzo immane per non fare andare in scadenza ciò che accumula nel carrello. Gente che come me talvolta comincia a lavorare alle sei di mattina, vestita di stracci e pronta ad andare nel cantiere edile, con ai piedi un paio di ciabatte, nonostante i 5/6 gradi di temperatura mattutina, ma con in mano un iPhone di ultima generazione.
Io non osservo fuori dal macchione, probabilmente ci sto in mezzo come il muschio sta nelle cortecce delle pinete, ma non posso nascondere che la ressa e la rissa per "vincere la lotteria del sottocosto" mi fa veramente tristezza, come mi fa tristezza l'esibizione di false griffe di prodotti made in China perché non si ha il coraggio di rinunciare alla patacca pur di "fare il patacca".
Questa è la mia opinione, posso sbagliarmi, posso essere una nota stonata fuori dal coro della maggioranza, allora abbasso il volume e l'ambizione di essere letto da qualcuno e vado a letto, magari guardandomi un talk show nel nuovo 40 pollici di ultima generazione, ma come dice Daniele Silvestri, "non serve aumentare la definizione per vedere più grande un coglione"....... Buona notte

lunedì 24 ottobre 2011

Solo nel sole di una canzone


Avevo 15 anni e me ne stavo in una fila di mezzo di un'autobus che ci ostinavamo a chiamare Corriera, per sentirci più grandi e più importanti. Tornavamo da Tivoli nella nostra prima gita da liceali d'assalto: sorrisi smaglianti, sguardi ombrosi, ricercati e aria fresca e irriverente che contraddistingue una fase di vita irripetibile, come tutte le fasi di vita d'altronde!

Qualcuno già cominciava a fumare, qualcun'altro cominciava a studiare da ribelle e qualcuno cominciava a studiare e basta. Tivoli ci aveva lasciato dentro il fascino e l'impertinenza della nostra grandezza Italiana, ci aveva gratuitamente donato la sua scenografia per il nostro show, lo spettacolo della nuova avventura che conclude il primo anno tra i banchi dei "grandi", e noi l'avevamo accolta a piene mani, respirando a pieni polmoni l'emozione di non emozionarsi per sentirsi onnipotenti.

E poi è arrivato lei..... no, non una donna, ma una canzone, una canzone che portava il sole dentro, letteralmente. La cantava un ragazzo con una chitarra, e attorno a lui, nel prato dei giardini di Tivoli, ragazzi e ragazze che si lasciavano andare a quelle corde che emanavano musica balbettante, ma che alle mie orecchie sembrava la più bella delle melodie mai sentite.
Il ragazzo diceva che suonarla era facile, che si trattava in fondo di solo tre accordi che si ripetevano continuamente(e io che pensavo che gli accordi fossero solo quelli tra me e mio padre per portarmi a casa una paghetta che oggi apprezzo decisamente più di ieri).

Era facile, e per questo bellissima. Era moderna, e per questo immortale. Era semplice, e per questo apprezzata da tanti. Era coraggiosa, e per questo non strizzava l'occhio al tormentone di un ritornello che se ne andava giù in gola come l'acqua fresca in un afoso pomeriggio di maggio, quando l'estate è ancora dietro le colline ma i suoi colori sembrano non voler rispettare tempi e temperature.

Era ed è ancora lei, LA CANZONE DEL SOLE, la canzone delle bionde trecce e del mare nero, della mano che non vuole fermarsi e delle biciclette abbandonate, di una bambina che diventa donna e della paura del cambiamento, la canzone con tutto dentro e con niente fuori.

L'ho fatta vivere dentro di me per quell'intero pomeriggio, e poi, una volta a casa ho chiesto a mio padre di chi fosse. Non c'era Internet, eMule, Wikipedia, ma c'era però la cara vecchia enciclopedia cartacea pagata a rate, e lì ho trovato il nome di colui che ha segnato l'adolescenza mia e di tanti altri adolescenti nati in anni diversi, ma passati tutti o quasi per le sue note, le sue parole, la sua voce monocorde unica e stonata, ma assolutamente fantastica, lui era ed è Lucio Battisti, il costruttore di sogni. Poi arrivava l'architetto che quei sogni li realizzava, Mogol. Insieme sono stati una pagina non più percorribile della musica e della cultura italiana, a metà strada tra gli abbronzatissimi e le canzoni con Dio che è morto. Unici nel loro genere e per questo ancora oggi vivi.

La Canzone del Sole ha 40 anni, c'era prima di me e ci sarà dopo di me, mentre Lucio non abita più questo mondo da qualche anno. Imparai della sua morte all'università, si navigava per le prime volte su internet e non nel mare, ma quella notizia il mare lo fece diventare davvero nero e bloccò i poveri modem a 56k che si affacciavano sul Mondo dell'informazione di massa. "Lucio Battisti è morto", ma in fondo lo era da tempo, "quel Lucio Battisti", quello di Battisti/Mogol e dei duetti con Mina era ormai un eremita che aveva (forse giustamente) abbandonato un mondo che era diventato sempre più patinato e finto e sempre meno aperto ai geni come lui. Lucio era genio perché era avanti, coltissimo, "perchè passava il tempo non come i dilettenti a creare, ma ad ascoltare", come ha raccontato di lui il suo vecchio amico Mogol.

Se ne era andato ancor prima di farlo sul serio, e senza disturbare aveva rivoluzionato il mondo della musica italiana per sempre, fino al punto che un giorno un ragazzo biondo, senza trecce ma con la fiamma accesa nel fondo degli occhi, decide di pensare e ripensare a quel giorno di quasi vent'anni fa, con un sottofondo unico che finisce così: 

"Il sole quando sorge, sorge piano e poi
la luce si diffonde tutto intorno a noi
le ombre ed i fantasmi della notte sono alberi
e cespugli ancora in fiore
sono gli occhi di una donna
ancora piena d'amore"

Da solo nel sole di una canzone che è un raggio di vita di ognuno di noi, perché le canzoni sono come le poesie, appartengono a chi le ascolta e non solo a chi le scrive...

giovedì 20 ottobre 2011

fuoco e fiamme e auto in panne


Un poveraccio dentro una buca, una talpa chiusa sotto terra con l'arma in pugno e con salda in mano la tenacia di "tirare a campare" finché gli è stato possibile. Questa è la fine di Gheddafi, come simile è stata la fine di molti prepotenti diventati impotenti una volta messi di fronte all'inevitabile finale di una vita condotta sempre usando la violenza. La violenza è come un fuoco d'artificio, la manovri, la maneggi, ti rassicuri e diverti in maniera sadica nel vederne le conseguenze, ma come capita a tanti, prima o poi a giocare col fuoco si finisce sul rogo.

Gheddafi come Bin Laden, come prima di lui Saddam, Stalin, Lenin, Hitler,  e come finiscono spesso tanti mafiosi che scambiamo come padroni del Mondo e che invece ce li ritroviamo a vivere in catapecchie miserevoli che sono ben peggio delle prigioni indecenti di cui è dotato questo Paese incivile (almeno dal punto di vista carcerario).

"Sic Transit gloria mundi", così passa la gloria di questo mondo (in senso lato: "come sono passeggere le cose del mondo"). La frase viene pronunciata durante la cerimonia di elezione di un nuovo Pontefice. C'è un Cardinale che enunciando questa frase di fronte al nuovo papa, contemporaneamente spegne una fiamma posta su di un'asta. Ciò che brucia un secondo dopo non brucia più, la fiamma scompare, per ricordare all'uomo più vicino a Dio che anche la Gloria di questo Mondo terreno è destinata a spegnersi in un batter d'occhio. Il Papa quindi si genuflette ed è portato alla riflessione.
Se si esce dall'ecclesiale la si può leggere in maniera molto più terrena, basta immaginarsi la magnificenza e l'eleganze di una lussuosa auto degli anni 50, tirata a lucido e con tanto di autista con cappello, in lento movimento tra strade ancora lontane dal diventare trafficate. Per quelle poche superstiti di quei gloriosi anni, l'oggi riserva un presenta da museo (se gli è andata bene), ma ancor più probabile da ferrovecchio lasciato ad arrugginire all'imbrunire della sera su di un campo, senza neanche più traccia dell'autista!

"Sic Transit gloria mundi", con queste parole Berlusconi ha commentato la fine del suo amico Libico. La gloria che si riversa nel suo contrario, le stelle che diventano buie e chiuse nel fetore di una stalla, con questo stesso epitaffio sono ornate le tombe di molti illustri potenti, come a ricordare la caducità della condizione umana, ma allo stesso tempo a sottolineare che finché la fiamma è stata accesa ha arso di un fuoco imperioso e potente, ben al di la della piccola fiammella che accompagna l'uomo qualunque.

Io non godo nel vedere la morte di un criminale di guerra, ma ovviamente mi compiaccio del fatto che i suoi crimini, almeno grazie alla morte, non siano più reiterabili per suo pugno.
Non faccio neanche il gioco meschino di associare il tragico finale del Rais all'agognato finale di Sua Emittenza (senza guerra civile e per mezzo della potente arma della democrazia chiamata "penna"), l'associazione nasce solo sulla spinta di quella frase, che Berlusconi pronuncia ai media ma fa risuonare dentro la sua cassa cranica in maniera evidente: un modo di ricordare a se stesso la transitorietà del potere temporale e quanto, in ogni caso, la vita sia "a termine".

In quella frase c'è sempre la bellezza e il paradosso che accompagna ogni pensiero, anche il più ispirato alla nobiltà. In quella frase c'è la voglia di ricordare ai Potenti e al popolo di vivere una vita degna e di non aspirare alla felicità attraverso il mero esercizio del potere, essendo tutto costruito su fondamenta fragili, quelle del tempo che passa. 
Ma in quella frase si annida anche il possibile desiderio di bruciare tutto ciò che diventa combustibile, per scaldarsi e illuminare questo inevitabile passaggio terreno nella maniera più calda e lucente possibile, fregandosene di morale, di regole, di Diritto Naturale e di Giustizia. Il Potente che si droga del suo stesso potere, che si scalda le mani sul fuoco che egli stesso ha accesso, quelle mani che avvicinate al falò si immergono nel chiarore rosso e rendono meno possente il colore rosso del sangue che le solca.

Il finale del fuoco che arde è sempre quello della brace che cova sotto la cenere, non esiste un fuoco perenne (se non nelle viscere dell'Inferno per i credenti), ma chi rimane a guardare la cenere non è detto che si ritrovi a contemplare un mondo migliore, perchè basta muovere un poco la terra affinché ci si renda conto che è molto più facile riaccendere un fuoco da sotto la cenere che accenderlo dal niente.

Oggi non c'è più Gheddafi ma rimane il mondo che l'ha creato, domani non ci saranno più nemmeno uno di quei politici italiani che hanno condotto il Paese negl ultimi vent'anni, ma rimarrà l'Italia. No, l'unica certezza è la certezza del finale, ma mai delle sue conseguenze.




martedì 18 ottobre 2011

dentro o fuori, sperando in giorni migliori


Sono anni che sento ripetere alla Sinistra italiana la solita litania all'indomani di una sconfitta politica (e di occasioni negli ultimi vent'anni ce ne sono state tante),  ossia la 'colpa' è sempre da cercare da qualche altra parte ma mai dentro casa propria.
Faccio riferimento ad un piccolo ma significativo episodio politico recente, la conferma di Iorio a governatore della microregione del Molise. Bé, a poche ore dal capitombolo nelle urne, l'ex segretario democratico Franceschini si è lanciato nella mischia con una piroetta patetica, affermando che "per un pugno di voti in Molise vince il candidato di destra, inquisito, grazie ai voti di Grillo, tolti al centrosinistra". Stesso ritornello già sentito in occasione della sconfitta della Bresso in Piemonte.
La colpa è di chi toglie voti alla sinistra senza rendersi conto che chi toglie voti alla sinistra è proprio la classe dirigente DELLA SINISTRA stessa.

Il vicedirettore de "La Repubblica" coglie il segno e scrive che "C'è un dato politico generale, che si coglie anche dalla "sindrome molisana", con il quale la sinistra riformista deve fare i conti: la sua offerta politica non è sufficiente né a convincere gli arrabbiati di sinistra a votare Pd, né i delusi di destra a spostarsi da un polo all'altro. Il governo Berlusconi è una calamità devastante. Ma l'armata anti-berlusconiana non pare un'alternativa convincente."

Moretti nel 2002 affermò che con questi dirigenti la sinistra non avrebbe mai vinto. Quella profezia era vera solo in parte, perché di quella frase era sbagliato il complemento oggetto. Non erano e non sono 'questi dirigenti' che non faranno mai vincere gli eredi del PCI, ma la mentalità che sta dietro i capibastione e che è ben presente e viva in ogni angolo dei Partiti politici. Non è un problema di dirigenza, di vecchia guardia che non da spazio alle nuove leve, è un problema di reale ed effettiva incapacità a capire che con i 'bravi ragazzi' non si cavalcano le rivoluzioni sociali alle quali stiamo assistendo, ma le si subiscono, le si osservano dalla tribuna nella speranza che prima o poi il cavallo pazzo del capitalismo malato si stanchi e cominci a trotterellare verso le transenne.
Le persone che ho conosciuto in politica sono quasi tutte 'brave persone' ma io ero entrato dentro un partito non per incontrare persone oneste (l'onestà va data per scontata come ha detto Floris giorni fa), ma per incontrare l'origine di un cambiamento, l'innovazione che andasse oltre il nepotismo e il bon ton, l'assecondare il dirigente di turno e il non fare mai affrermazioni che potessero in qualche maniera disturbare i "capi".

Non si spara sull'azienda, ma non si può neanche sperare di cambiare il devastante distacco tra politica e società facendo semplicemente i 'bravi ragazzi'. Si finisce così a lasciare la politica solo agli indignati e si entra nel circo della politica organizzativa, Feste, Eventi, Convegni, Cene, Aperitivi, Pulmini, come se per stare tra la gente si debba dare enfasi al modo di starci.

Allora perché mai sono entrato in un partito? Perchè mi affascinava l'idea del partito nuovo, non nel nome ma nelle intenzioni. Perché ho sempre pensato che tra star fuori o dentro si abbiano più possibilità ad essere incisivi dentro. Perché ho sempre creduto e credo che organizzarsi sia comunque necessario alla proposizione per superare la contrapposizione.

E poi le cose non vanno sempre come si spera che vadano, e succede che un bel giorno, un giorno qualsiasi, un'amica ti faccia una domanda com questa:

ma io mi chiedo: come fare posto a chi vuole un nuovo modo di fare politica, se sistematicamente gli vengono "tagliate le gambe" e viene bollato come eversivo, e si lascia la strada libera ai soliti "figli di papà"? Se si considera il sistema ormai marcio, come cambiarlo da dentro? (c'è chi decide di starne "fuori" proprio per una mancanza di fiducia, come ritrovarla?)

Se avessi la risposta alla sua domanda (che da sempre è anche la Mia domanda), allora avrei davvero trovato la strada, poi la lunghezza e la tortuosità non mi farebbero certo paura.
Ma io non so rispoderle né rispondermi, so solo che stare dentro in maniera "funzionale" è solo un modo per perpetuare l'immobilismo, con qualche gentile concessione all'abbassamento dell'età media (quando decidono che deve capitare).
Io non passerò più nemmeno un minuto della mia vita "politica" ad assecondare meccanismi gattopardeschi, a tagliarmi la lingua, ad accettare il declino permanente.
Non so se starò più "dentro", ma se dovesse accadere non mi fermerò mai più in posizioni di galleggiamento, dirò quello che sentirò di dover dire, con le giuste maniere ma dritto fino alla meta. Se poi questo non dovesse essere sufficiente io un giorno mi siederò sulla banchina, in riva al fiume, con i piedi nudi penzolanti e i pensieri fermi, convinto di aver fatto tutto quello che mi era possibile fare per vedere quell'acqua scorrere controcorrente.... e poi berrò....

"sara' anche che il gioco si cambia da dentro
ma alla fine e' giocare che ti cambia dentro
sara' anche che spesso lontano dal centro
ognuno si scopre un nuovo talento

magari fuggire non e' la soluzione
magari fuggire e' una resurrezione
e' come sfidare il niente
stare qui

io non so se ritornare
quale vuoto sia peggiore
se avro' forza per trattare
e se il mio destino e' stare
fuori o dentro"
(N.F. Fuori o dentro)

sabato 15 ottobre 2011

Il Mondo di Indegni e Indignati


Oggi, in un mondo globalizzato diventa globale anche la protesta degli INDIGNATI.
Anche l'Italia ha i suoi Indignati, i suoi giovani ventenni e trentenni che "combattono" per le strade e per le piazze per far sapere all'opinione pubblica ed ai palazzi del Potere che non ci stanno più a sopportare politiche economiche e fiscali che mai e poi mai mettono in primo piano le esigenze di coloro che sono oggi le fondamenta della società sulla quale poggerà un domani più o meno decente.

Io non ho nulla contro il movimento nato in Spagna ed espatriato nel resto d'Europa. Si tratta di un movimento che sta assumendo dimensioni globali e che intende dar voce (come dicono i manifestanti), a quel 99% della popolazione che sta pagando una crisi che non ha provocato.

Ora però non posso nascondermi dietro un due aste; infatti non nego la mia lontana ammirazione per un vecchio della politica come Pietro Ingrao, e questo mi fa propendere per uno slogan che assomiglia molto di più ad un punto di partenza che ad un punto fermo: INDIGNARSI NON BASTA.
Ingrao sostiene quanto segue: «vedo prevalere una critica morale alla degenerazione dei partiti, alla corruzione e all’affarismo del ceto politico. Ne condivido le ragioni e l’asprezza. Ma l’indignazione non dà conto delle modificazioni sostanziali. La mera denuncia, in qualche modo, le occulta».
In pratica afferma che indignarsi è un tutt'uno con l'IMPEGNARSI, altrimenti si finisce per essere uomini con il megafono ma privi di cappa e spada, e il megafono dopo un po' rischia di diventare un fastidioso rumore di fondo che non si differenzia più dal rumore dei nemici. Il "vecio" ha una paura folle che il sentimento dell'indignazione si accoppi con quello ecumenico della speranza, con il serio rischio che l'uno renda inefficace l'altro se li si lascia in solitario, avulsi da una pratica politica e sociale che dia loro sostanza. L'indignazione non potrà mai fare le veci della politica semplicemente perché non sono sostantivi paritetici.

Certo, indignarsi è una conditio sine qua non per affermare che una generazione ha preso coscienza di sé e dei propri diritti, ma per l'appunto rimane una presa di coscienza e non certo di potere. Portare in Piazza draghi stanchi e cartelli fiammanti, tirare uova contro BankItalia e fare pernacchie al governo ed alla classe politica in generale è il cartellino giallo, l'ammonizione che gli arbitri del proprio destino mostrano agli arbitri del mondo, ma tirato fuori il cartellino poi occorre continuare a "giocare" una partita che ci costringe e ci costringerà ad uscire dai recinti delle battute su Facebook contro un ministro e dalle vecchie ma mai troppo nuove ubriacature di piazza. Occorre ricordare e giocare in prima persona, occorre smettere di chiedere ai politici il rinnovamento e farlo per conto proprio, senza prestare il capo ed il voto a polli di allevamento che di ruspante e innovativo non hanno nemmeno il becco.

Urlare che "Noi il debito non lo paghiamo" è giusto in linea di principio, ma guardando in faccia la realtà si scoprirebbe che un terzo di quel debito non è nelle tasche di ricchi banchieri, ma di cittadini e pensionati che hanno sottoscritto Bot e Cct pensando di essere amministrati da gente responsabile. Quel Noi assume cosi un valore grandissimo, e la frase dovrebbe poi concludersi con la richiesta di non pagare il debito come dovrebbero invece pagarlo evasori e corruttori, ladri e saltimbanchi politici privi di responsabilità legali per scelte amministrative sciagurate.
Si ai movimenti referendari, al "Se non ora quando", alle Libertà e Giustizia, ma manca la pagina del "come" (per rubare una battuta a Crozza), e quella pagina la si trova solo in gruppi, movimenti (o fatevene una ragione), nei partiti..... E se nessuno oggi ci rappresenta facciamocene una ragione, ma facciamone anche un partito....




venerdì 14 ottobre 2011

Uomini soli o solamente uomini

Ci si può sentire soli per una svariata serie di motivi: ci sono vuoti sentimentali temporanei o permanentemente solidi quanto una roccia, ci sono vuoti emotivi che nascono da vuoti fisici, ci sono vuoti emotivi che scavano in lacune legate ad un temperamento psicofisico alquanto precario. Fatto sta che la solitudine è una compagna alquanto severa ed esigente, non ti permette un attimo di distrarti e di scordarti di lei, nun vuol essere lasciata sola nemmeno un attimo, e spesso non ti lascia la mano neanche in mezzo ad una folla di gente che fa da cornice al tuo quadro personale dove solo e solo tu sei li ad essere appeso al muro.

"A volte un uomo è da solo per scrivere il romanzo che ha di dentro,
perché la vita l'ha già messo al muro, 
Dio delle città
e dell'immensità,
se è vero che ci sei
e hai viaggiato più di noi,
vediamo se si può imparare questa vita,
e magari un po' cambiarla,
prima che ci cambi lei.
Ma Dio delle città
e dell'immensità,
magari tu ci sei
e problemi non ne hai.
Ma quaggiù non siamo in cielo,
e se un uomo perde il filo,
è soltanto un uomo solo."

Ora, non è raccogliendo a man bassa da uno dei maggiori successi dei Pooh che pretendo di spiegarmi cosa si provi quando la solitudine è più pressante di una marcatura di Gentile nella juve degli anni '80, ma quel richiamo ad un Dio, solo anch'egli, anch'egli lanciato nel vuoto del dubbio dell'esistenza, è effettivamente la sensazione che più riesco ad avvicinare alla voglia di riempire di senso la vita, perché sta proprio qui la sfida. La vita è come un decanter, la si può riempire di tante cose, di sassi, di sabbia, di semplice acqua o magari di un buon vino pregiato per palati fini, ma riempirla tanto per soffocare la voce del silenzio è come annaffiare l'orto della malinconia.
Allora si tingono di colori molto più tenui ruoli, status sociali, riconoscimenti, luci dei riflettori, onoreficenze, titoli e sottotitoli. La tavolozza del pittore rimane fissa ad una mano tremolante, la tua, che cerca tra quei colori che hanno perso smalto e vitalità, quello che potrebbe ridar luce ed arte alla tela.... e cerchi.... e cerchi... e come se lo sapessi ma avessi comunque bisogno di conferme, trovi quel semplice colore negli occhi di chi ti ama indipendentemente da ciò che sei stato, negli occhi di coloro che amano i tuoi mille difetti e vorrebbero vedere sotto le tue palpepre quel sorriso che illumina un viso pieno di serenità e benessere.
A volte sembra impossibile che tutto questo ancora ci sia, ma come la luce che si spegne all'improvviso, altrettanto all'improvviso tutto ritorna ad essere folgorato e lontano da quel buio al quale non ti ci abituerai mai. La luce, la luce, a volte ritorna, a volte occorre cercare l'interruttore, perché spesso si rimane vivi quasi per miracolo, grazie agli interuttori....

mercoledì 12 ottobre 2011

il Perno e la Pernacchia

In questi giorni mi è toccato stare a casa per colpa di un fastidioso virus che ha deciso di venirmi a trovare anche se io effettivamente non ho né sentito il campanello suonare né la porta rintoccare sotto le nocche di un inatteso ospite, ma tant'è, ci si arma di pazienza e si aspetta che passi la "nuttata".
Cosi mi sono ritrovato obbligato a letto con un'altra compagna anch'essa non cercata, nostra signora televisione. Voi mi direte: "C'è sempre un bel libro che ti può far compagnia, o magari un diversivo musicale che renda meno silenziose e sole le ore passate a rendersi conto di quanto sia bello avere qualcuno con cui condividere la giornata, il cielo sereno, o il rumore della pioggia e del vento".

E io ho fatto tutto questo, ma non ho potuto fare a meno di obbligarmi a guardare la Tv; non come forma soggettiva di autolesionismo, non come dispositivo elettronico atto al rincoglionimento dei sensi e del pensiero, ma con la ferma volontà di capire perché il Servizio Pubblico porta questo nome altisonante e carico di responsabilità. Ho poi cercato anche di pesare la velleità dei competitor privati per assaporare un modo alternativo alla Rai di fare Tv.

Faccio poi una fondamentale premessa, non amo Soap Opera, Prove del cuoco, del fuoco e del fuochino, non mi appassiono a Piazze Grandi e melodrammi napoletani recitati in un italiano povero di lessico e ricco di retorica. Ho optato così per i programmi di approfondimento.
Partendo dalla Rai (dove la ricerca è stata certosina), passando a Mediaset (dove è necessario il fiuto di un cane da tartufi per trovare un contenitore di notizie e opinioni), arrivando a La7 e Sky (dove la scelta si arricchisce di proposte più o meno serie), si giunge ad una sola conclusione: ci si affaccia alla trasmissione con una propria idea e se ne esce con la stessa, inalterata, medesima idea.
Questo accade non per incapacità intellettuale di discernere le tesi e le controtesi degli ospiti politici, dei politologi (e purtroppo delle soubrette e uomini di spettacolo prestati all'analisi della società), ma credo per il semplice fatto che da quelle telecamere non si riescono a intravedere oggettività con le quali è possibile ancorare ad un perno dati e certezze e in base alle quali far partire la nave delle nostre opinioni in un mare piuttosto che in un altro.
Vengono dati numeri e poi smentiti dalla controparte, vengono citati organismi terzi che poi si scontrano con le citazioni di altri organismi terzi, viene chiamata in ballo la coerenza e qui si cade nell'oblio dell'incoerenza generale di tutto il panorama che accompagna la classe politica nostrana.

Ultimo esempio è l'ipotesi sciagurata del Condono, un modo chiaro è inequivocabile di far cassa privilegiando i furbetti che se ne fregano delle regole in attesa della carezza sul capo da parte dello Stato, in barba agli utili idioti onesti che non hanno nulla da farsi condonare se non l'essere nati in Italia. 
Bene, sul condono del centrodestra, pratica alla quale Berlusconi e soci ricorrono da anni, sentire i capibastione del centrosinistra levarsi in dichiarazione da tribunali morali suona davvero stonato, basti pensare che nei 7 anni di governo di centrosinistra sono stati votati e approvati 13 sanatorie/condoni. Si dice allora che erano altri tempi ed un'altra Italia, che c'era una situazione economica diversa, che bla bla bla bla.

Un altro esempio lampante è la tanto vituperata legge elettorale n.270 votata sciaguratamente dal governo di destra su proposta dello "statista" Caderoli il 21 dicembre 2005. Il Centrosinistra ha poi governato in manera bislacca per due anni (2006/2008) ma non ha mai pensato né agito al fine di cambiare quella legge con la quale tutti i parlamentari sono stati scelti (e non votati) da 5/6 personaggi in cerca d'autore.

Potrei continuare con tanti esempi, ma l'obiettivo vorrei fosse chiaro, qui non si tratta di preparare il pentolone con dentro il minestrone del "sono tutti uguali", qui si tratta di dichiarare con onestà intellettuale che la coerenza abita in palazzi meno altisonanti e nobili rispetto a Montecitorio, Palazzo Chigi e altre sedi di Potere. 
La coerenza, ancor prima dell'onestà, questo viene richiesto a chi ha l'onere di prendere in prestito dal popolo il volante del potere per un tempo limitato. Per l'onestà ci sono i giudici che dovranno fare il loro dovere qualora se ne presenti l'occasione, per la coerenza noi abbiamo in mano la penna giudicante. Per saperla usare occorre informarsi, spesso malvolentieri e con fatica, ma occorre farlo, altrimenti dai salotti televisivi e dalle pagine dei media uscirà sempre il solito minestrone che ci hanno cucinato per anni, dove ognuno è migliore dell'altro per capacità politiche e per attitudini morali.

Fatto sta che per giudicare la coerenza occorre dotarsene in prima persona, magari spegnendo più spesso la tv e armandosi di un'agenda sulla quale appuntare tutto quelle decisioni che vorremmo non fossero ripetute da altri (indipendentemente dal colore politico). Poi ci si tura il naso come ci ha insegnato Montanelli, ma con la bocca occore pur respirare, magari con la lingua posizionata tra le labbra, e se ne vien fuori una pernacchia non facciamocene una colpa.


domenica 9 ottobre 2011

A me non resta che scriverlo: GOL

Ho fatto più di otto ore di auto per andarmi a gustare la partita della mia squadra del cuore contro i campioni d'Italia in carica, una partita di cartello come si dice in gergo da radiocronaca, una partita che aveva tra i suoi richiami attrattivi la curiosità di giocarsi in un nuovo stadio che è da tutti dipinto come un teatro per il calcio, un piccolo gioiello di architettura e design pensato per il pubblico ancor prima che per i calciatori.

Erano passati più di vent'anni dalla mia prima volta in uno stadio, e ricordo ancora oggi l'emozione di trovarsi da ragazzino a tu per tu con un Evento. Vedere dal vivo (live come si direbbe oggi) i propri beneamini era un emozione che nella testa di un adolescente non poteva che diventare un miscuglio di tensione, voglia di vincere e timore di perdere.
Il boato della folla, le decine di telecamere e flash fotografici, le centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa, i vip e gli aspiranti tali che raggiungevano le tribune quando tu eri ormai al tuo posto da più di un'ora, e loro, i calciatori, così lontani nonostante il caro biglietto, ma così vicini nel cuore di chi ama il gioco del pallone, e poi? E poi si cresce......

Non nego di essermi goduto la serata e la bellissima vittoria della mia squadra, non racconterò mai di non essermi sentito vent'anni addosso anche solo per venti secondi, ma quello che ho lasciato sui seggiolini di plastica delle tribune di quel bellissimo Stadio è la sensazione che in me qualcosa è cambiato definitivamente, sensazione che diventa certezza se riesco a sgomberare da tanti steriotipi la mia mente. Non che io voglia scendere dalla tribuna nella quale mi trovavo per accomodarmi in tribunale, non si giudica nessuno, cerco solo di capire me stesso per capire il mondo.

Più divento grande, più quello che ti sembrava grande un tempo cambia forma e diventa piccolo. Non distingui più così le stelle del calcio e vedi uomini che sanno fare il loro mestiere, chi più chi meno, e vedi uomini che nonostante i mugugni sugli stipendi degli sportivi del calcio sono lì a scaldarsi il cuore e la voce per un gol che vale un'emozione. 

Non si tratta dell'incapacità di vivere l'età adulta con gli occhi da bambino, è semplicemente la consapevolezza che quello che una volta ti sembrava la cosa più importante del mondo si è spostata dal campo da calcio, dal palco di un concerto, dallo schermo di un televisore e si è avvicinata alla tua persona, ha bussato al tuo petto e con disinvoltura ed eduzazione è entrata dentro di te, e tu l'hai fatta entrare.

Lo sport diventa cosi un piacevolissimo passatempo, e rinasce negli spalti di uno stadio dove per la prima volta nella mia vita non ho sentito scoppiare petardi e non ho visto partire fumogeni, non ho visto carabinieri e celerini a guardia di pseudo tifosi pronti a svestire i panni dei somari infrasettimanali per mascherarsi da leoni domenicali. E ho visto tanti bambini. E mi sono ritrovato più a guardare quella che per me era una novità rispetto al bellissimo gioco della mia squadra del cuore, e sono diventato triste. L'assuefazione è la più pericolosa delle armi di distrazione di massa, pian piano ciò che non è normale in una società civile viene lentamente digerito e reso commestibile dalla reiterazione, e come per una evoluzione sociale (che in realtà è un vero e proprio declino culturale), ci si adatta a ciò che si vede per troppo tempo.
Oggi io esulto come un ragazzino per un gol, ma trasudo da ogni poro la voglia di vedere in un campetto di periferia l'essenza dello sport. Vorrei avere il potere di togliere il volume con un telecomando a quei genitori che incitano i propri figli come se dovessero superare un'operazione chirurgica, vorrei cancellare le fatture gonfiate che servono più alle aziende "sponsor" che alle società sportive, gli stipendi in nero chiamati rimborsi, il dilettantismo vestito da professionismo che di professionistico ha solo l'ambizione.
Vorrei che il calcio diventasse più povero non in termini economici, ma nell'atteggiamento, vorrei che un calciatore non si sentisse in dovere di chiedere soldi per giocare nelle ultime categorie esistenti come non se lo sogna un pallavolista o un ginnasta, e vorrei che nessuna società sportiva rompesse l'equilibrio del "qui si gioca per passione, non per denaro". Vorrei che i tanti giocatori che, al contrario mio, hanno avuto piedi buoni, potessero prendere il sopravvento su chi ha contribuito a rendere il pallone con il quale passavamo la nostra infanzia la pezza di stracci con la quale ancora oggi non si restituisce alla dimensione sportiva quello che è sport.

Poi, come per incanto, non mi sentirò più in colpa per non essere come allora, perché oggi non sono meglio o peggio, sono diverso, perché a crescere non sono stati solo i miei occhi, ma tutto quello che guardano attorno. Non ho perso la capacità di emozionarmi e non sono diventato un precoce vecchio cinico, mi emoziono per situazioni che un tempo non riuscivo a scorgere e che non hanno bisogno di titoli di giornale e manifestazioni di massa, e mi emoziono perché ancora so emozionarmi, e non voglio smettere.......
Scrivere mi emoziona, sono un medianaccio nenache particolarmente brillante, non gioco per i tifosi ma per il piacere che mi provoca farlo. Qualcuno ha la fortuna di saper fare gol, a me non resta che scriverlo: GOL

giovedì 6 ottobre 2011

In equilibrio sopra la livella

Post tristissimo e pseudo filosofico, se ne sconsiglia la lettura a persone normali. Nel caso in cui decidiate di continuare avrete due possibili interpretazioni alla base della vostra scelta, o non vi credete normali o non credete alla normalità....

So di essere a contatto con un terreno scivoloso e oscuro, me ne rendo conto ancor prima di cominciare a mettere sotto forma scritta i miei pensieri.. In questi giorni essi hanno preso il via trascinati dalla corrente della mia mente. In ogni momento vengono irrorati da affluenti improvvisi e pur dividendosi in tanti rivoli alla fine riprendono a scorrere nel letto di un unico fiume, destinati alla foce, destinati a quel mare nel quale non è poi così dolce naufragare.

Con essa hanno provato a fare i conti filosofi, religiosi, poeti, ma nessuno in realtà è riuscito e riuscirà mai a farci accettare la cosa più naturale e normale che capiti ad un essere umano, ovviamente la morte.
Non facendo parte di nessuna delle tre categorie sopracitate non oso neanche avventurarmi nelle strade battute dalla signora dal nero mantello, ma non credo ne crederò mai a coloro che sostengono di non pensarci, di non temerla, di non nutrire paura, non tanto di fronte al suo cospetto ma avvicinandosi al suo solo pensiero.

Ieri Anna Lisa, sconosciuta a molti e pianta da pochi, oggi Steve Jobs, conosciuto da tutti e pianto da molti. E la mente corre a colui che ha fatto ridere generazioni di italiani e che ormai da tanto tempo (1967) ha completato il suo passaggio terreno, il Principe De Curtis, Totò.
Egli, in uno dei suoi tanti modi di essere uomo di cultura, oltre che di spettacolo, si profuse in una poesia che spesso viene citata quando accadono morti premature che toccano persone ricche, coloro per i quali il regno dei Cieli è più stretto della Cruna di un ago per un cammello... parlo della Livella:
Racconta dell’incontro avvenuto in un cimitero, tra un netturbino ed un nobile che non gradisce la presenza del non blasonato al fianco della sua tomba.
E’ uno dei tanti esempi della profonda saggezza del Principe della risata che oltre a divertire sapeva far riflettere …..

""Lurido porco!...Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri,nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?"

"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella
che staje malato ancora e' fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.

'Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt'o punto
c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme:
tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,
suppuorteme vicino-che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"

La morte come una livella che cancella all'istante ogni differenza terrena legata al ceto sociale, alla ricchezza economica e alla conoscenza culturale. Apparteniamo alla morte dice Totò.
Questo apparente macabro pensiero è in realtà un inno alla vita, vi è in esso la voglia e la volontà di rendere in vita ciò che inevitabilmente succedete al momento della morte, dare lo stesso peso e la stessa importanza ad ogni singola esistenza e ad ogni singolo uomo. Non c'è la miserabile attrattiva del "mal comune mezzo gaudio", se muore un personaggio ricco e famoso non ne beneficia l'uomo qualunque, perché qualunque uomo in realtà è irripetibilmente unico e mai qualunque.

La livella in realtà è un traguardo posto alla fine di ogni esistenza, traguardo oltre il quale ognuno in base alla propria fede e alle proprie convinzioni, alla propria psiche e alle proprie emozioni, decide di vederci quel che più lo aiuterà a non appesantire la propria vita con il pensiero della fine di essa.
La livella si trasforma cosi in un filo sul quale ognuno di noi cammina dal momento della nascita, in equilibrio sopra quella folle idea che si chiama accettazione del finale.

La certezza che tutto questo un giorno si concluderà non può sin da ora pregidicare il presente, è come se si cominciasse a digiunare oggi al sol pensiero che in un domani ignoto il cibo finirà. Ogni giorno diventa così il giorno di inizio di una nuova vita, giorno durante il quale l'essere uomini ci spinge e ci spingerà sempre verso un unico obiettivo, quell'imparare a volersi bene che sta alla base di una buona vita, quel carpire e capire cosa possa in ogni istante rendere la nostra vita un evento follemente sereno e felice invece che una inutile e sprecata attesa di quel che verrà poi.

E lo si deve imparare a fare, per se stessi, per chi ci ha preceduto e per quelli che precederemo. Si vive per non morire ogni giorno, è l'unico modo per sconfiggere l'idea della morte, perché temerla spesso rischia di diventare più doloroso di morire.

mercoledì 5 ottobre 2011

Anima grande

Oggi non ho tempo, oggi voglio stare spento...... No, un brivido rosso di vergogna mi percorre tutta la spina dorsale al solo pensiero di una frase così, soprattutto se avvicinata alla notizia della morte di Anna Lisa di cui avevo scritto circa un mese fa (post: una foto ai miei pensieri).

Oggi il tempo lo trovo e l'interruttore lo lascio acceso, ma per una volta evito di scrivere in prima persona quello che sento dentro e lascio il mio Blog al Direttore della Stampa, Mario Calabresi.
Nel suo magnifico articolo su questa ragazza/donna/bambina, riesce a far respirare la forza e il dolore di una storia che purtroppo è la storia di tanti che come lei hanno avuto una vita "diversa". Non c'è pietismo né vittimismo nelle parole di Anna Lisa e di Calabresi, non c'è moralismo né vittimismo, c'è solo la vita nell'esplosione folle di tutto il suo paradosso, bellissima e crudele. Ciao Anna Lisa.





Addio Anna Lisa coraggioso "faro di vita"
E' morta la donna che ha raccontato in un seguitissimo blog la sua lotta al cancro
Sono Anna, Anna-staccato-Lisa, quella del blog», mi fissa sorridendo e la sua faccia sembra avere la forma di un punto interrogativo. Si chiede se l’ho riconosciuta, lì in mezzo alla gente che è in fila per farsi fare una dedica sul libro. Io ci metto un po’ a risponderle perché ho un tuffo al cuore e per l’emozione mi si è bloccata la voce. Certo che ti riconosco, penso, ma cosa ci fai tu qui, a Pietrasanta, in un bellissimo pomeriggio di sole di inizio giugno. Nella mia testa dovrebbe essere in un letto di ospedale a Livorno, a combattere contro le recidive di un tumore che la tormenta da tre anni. E’ giovane, ha due occhi con dentro un lampo di vita così scintillante che non ricordo di averne visti di simili. La conosco solo per mail, anzi la conosco perché una signora che si firmava «Una vecchia sognatrice» una domenica di maggio mi ha scritto per segnalarmi quel blog dal titolo «Ho il cancro». Un titolo che spaventa, eppure la «vecchia sognatrice» mi sollecita a andare a leggerlo: «Questo blog è un’iniezione di coraggio quotidiana.

Anna Lisa è un faro di vita: ha dignità, energia, ironia. E smuove i cuori nell’intimo». Allora sono andato a cercarlo e ho trovato qualcosa che non mi aspettavo: l’ultima lettera della parola cancro era un fiocchetto rosa, il sottotitolo recitava «Il blog di una malata coccolata, viziata, amata, fortunata», e tutto intorno c’erano disegnate delle farfalle e delle api. Ricordo esattamente quella notte in cui mi sono messo a leggerlo, dopo aver finito di lavorare, quando il giornale si svuota, c’è finalmente silenzio e i telefoni smettono di squillare. Mi sono immerso nella sua sofferenza, nel suo stupore, ho avuto paura di leggere ma ho trovato la sua mano che mi tirava dentro per scoprire quanta vita c’è quando si sente la morte. Quanta energia e speranza ci possono essere quando si è capaci di amare e di riconoscere il bene. E di quanta leggerezza si può trovare anche se si è in mezzo alla più dura battaglia: «Ho vinto una risonanza magnetica alla mia testolina per domani mattina!!! Quante fortune che ho! E sapete che cosa c’è di ganzo? Che a ’sto giro mi ci porta l’ambulanza!!! Proverò l’ebbrezza della sirena in autostrada!!! Perché... l’accenderanno la sirena, vero? No, sennò scendo eh!». Sono state queste le prime parole che ho letto sul blog, poi ho cercato la sua storia, eccola: «Mi chiamo Anna staccato Lisa, ho 33 anni, sono nata e abito in Toscana. Nel 2008, all’età di 30 anni, avevo un lavoro che tutto sommato mi piaceva, un fidanzato fantastico conosciuto da soli sei mesi, tante amicizie meravigliose e un rapporto stupendo con la mia Mamy. Ero in ottima forma fisica, facevo regolarmente sport ed ero corteggiatissima, coltivavo i miei hobbies, ridevo, mi divertivo, viaggiavo, sognavo, raccontavo la mia vita sul blog, facevo progetti e stavo bene: era decisamente un periodo positivo, tranquillo, sereno. Poi, il 21 novembre 2008, mi hanno diagnosticato un tumore al seno. Per oltre un anno ho lottato contro quel cancro cattivo, aggressivo, "vivace" (come lo definì poi il mio chirurgo), contro la "bestiaccia" come la chiamo io. Ho fatto 11 cicli di chemio e due interventi. Ho combattuto tanto, è vero, ho sofferto, ma ho anche raccontato e condiviso tutto e proprio grazie alla mia mamma, al mio fidanzato, alle mie amicizie, ai miei affetti e al mio blog, posso dire di avere avuto un grande aiuto. Lo diceva anche Shakespeare: "Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze".


«Nel marzo del 2010, all’età di 32 anni, quando avevo ricominciato a prendere in mano la mia vita, mi hanno diagnosticato una seconda "bestiaccia": metastasi ai polmoni e ai linfonodi del torace. Ho fatto altra chemio, ho fatto radioterapia e terapia ormonale. Ho dovuto fare trasfusioni di sangue, di piastrine. Ho preso e sto prendendo una marea di farmaci, ma nonostante tutto so che non potrò mai guarire. Non ci sono cure, non ci sono terapie per il mio cancro. Posso solo sperare di cronicizzare la malattia, di conviverci. E quindi continuo a lottare, continuo a condividere, continuo a raccontare la malattia sul mio blog e continuo a considerarmi una malata coccolata, viziata, amata e fortunata. E se la "bestiaccia" è così vivace... beh, io lo sono di più!».


Dopo quella notte abbiamo adottato il blog di Anna Lisa e lo abbiamo messo sul sito della Stampa e siamo rimasti colpiti da quante persone si sono messe a seguirlo, da quanti nuovi amici le hanno fatto sentirle calore e coraggio.


Anna Lisa mi aveva scritto e ora - un mese dopo - eccola qui, in carne e ossa, uscita dall’ospedale e da Internet per diventare una realtà vera. «Certo che ti riconosco - riesco a dirle - e sono felice e stupito di vederti qui». Mi allunga un barattolo di miele, fatto a casa sua, è il suo modo per ringraziarmi. La abbraccio e cominciamo a parlare, mentre racconta la scruto per capire cosa pensa davvero, se il suo ottimismo è una negazione della malattia o è davvero la convinzione che ogni attimo valga la pena di essere vissuto. La risposta me la regala senza giri di parole, è la stessa che trovo nel suo blog: «Passo momenti durissimi, dolori che mi sfiancano, ma sono contenta per la forza che mi è venuta nel mio animo, nella mia mente. Sto programmando un sacco di cose, ho un sacco di idee. E non importa se non tutte riuscirò a realizzarle, è bello anche solo immaginare, sperare, programmare».


Poi è arrivata l’estate e insieme la scoperta di metastasi ai linfonodi del torace, ai polmoni, al fegato. «Come volete che mi senta? Ogni parola sarebbe inutile e non mi va di star qui a piangermi addosso e lamentarmi. Continuerò a lottare, come ho sempre fatto, consapevole del fatto che forse non vedrò mai la laurea della Petra, non conoscerò mai la fidanzata di Jacopo e mi perderò il diploma di Sara. Ma so anche che quello che mi resta da vivere me lo godrò il più possibile. Nei momenti in cui starò bene penserò... a star bene, punto e basta».


Aveva ancora due sogni nel cassetto: il primo era di fare un libro in cui raccogliere i suoi post migliori, la storia del suo accanimento per la vita. La notizia che glielo avrebbe pubblicato la Mondadori l’ha ricevuta nel reparto Cure Palliative dell’ospedale di Livorno nel giorno in cui i medici le hanno detto che non c’erano più cure da fare. «Ho provato tutto il provabile - mi ha scritto - e non mi resta che... aspettare..., ma questa notizia del libro mi ha fatto felice nonostante tutto». Ha firmato il contratto a metà della scorsa settimana, in un momento in cui non era intontita dalla morfina.


Il secondo sogno era di sposarsi e il suo Andrea le ha fatto la sorpresa a Ferragosto. Il matrimonio, di cui esiste un bellissimo video su YouTube, si è svolto nella cappella dell’ospedale: lei aveva l’abito bianco con il velo, è arrivata su una sedia a rotelle piena di palloncini e c’erano 200 invitati e una magnifica torta in cui lei era Biancaneve e il suo sposo Superman. E’ stata una cerimonia naturale, senza forzature, senza pietismi, piena di felicità e di musica.


Anna Lisa non è più uscita dall’ospedale, il viaggio di nozze è stato un viaggio nel dolore, ad un certo punto ha chiesto agli amici di essere lasciata sola per qualche giorno, voleva fare i conti con l’idea della morte: «Ho avuto bisogno di stare da sola col mio dolore, fisico e psicologico. Ho avuto bisogno di silenzio».


Poi è tornata a casa un’ultima volta: «Mi hanno concesso una mezza giornata d’aria, come i carcerati. Un medico e un infermiere mi hanno accompagnato. Munita di ossigeno, morfina, sedia a rotelle ed entusiasmo, sono tornata a casa mia e Dio solo sa quanto è stato difficile per me poi venir via. Ho voglia delle mie cose. Ho voglia della mia gatta. Ho voglia del mio lettone, del mio bagno, del caos sulla mia scrivania».


Ieri notte Anna Lisa se n’è andata, abbiamo ricevuto migliaia di messaggi, di tutti quelli a cui ha regalato il privilegio di rendersi conto di quanto sia inutile piangersi addosso, sprecare le proprie giornate e di quanta felicità possa esserci perfino nel disordine di una scrivania.

martedì 4 ottobre 2011

Amando Amanda.......

Neanche io riesco a non parlare di quello che è successo ieri sera a Perugia, e non perché non voglia o perché costretto da qualcuno in particolare, ma per il semplice fatto che non faccio che chiedermi come sia possibile che io sappia e conosca il nome di quattro illustri sconosciuti mio malgrado, Meredith Amanda Raffaele Rudy, senza che abbia mai letto volontariamente una riga sul delitto della studentessa americana uccisa in italia quattro anni fa.

Il mio non è snobismo intellettuale (dato che non sono intellettuale e forse neanche snob), non è neanche il solito anatema moralista sul vouyerismo di chi segue la cronaca nera, è solo un patetico tentativo di capire ancora una volta questo benedetto Paese che mi stupisce ogni giorno che passa.

Gente che discute nei bar se la sentenza di assoluzione dei due imputati sia giusta o meno, la folla che fischia la propria indignazione nei confronti dei giudici, rei di non aver scritto la parola fine come loro vorrebbero fosse stata scritta su questa triste pagina di cronaca. Ma perché mai in Italia si è convinti di essere meglio di chi fa il proprio mestiere senza neanche sapere cosa significhi fare quel mestiere (e sto parlando della magistratura, ma non solo) ?. Se due ragazzi sono stati assolti si presuppone che siano stati giudicati innocenti, casomai l'indignazione può arrivare al pensiero che questi due poveri cristi si siano fatti ingiustamente quattro anni di carcere e abbiano per sempre macchiato la loro psiche con una storia che non li abbandonerà mai, non c'è assoluzione per i propri incubi.

Lascia magari sconcerto il fatto che l'unico colpevole riconosciuto dal tribunale italiano sia quel Rudy condannato si, ma per concorso in omicidio, come a dire che lui c'era ed ha dato il suo contributo, ma non si sa a chi e non si sa come.

E lascia sconcerto il fatto che in Italia crollino palazzine senza che nessuno diventerà mai colpevole per questo e senza che l'opinione pubblica non monti tribunali mediatici per fatti che ormai si danno per scontato nei tanti incidenti di percorso che capitano nell'essere nati in Italia.
La cronaca nera, fatta di Contesse Vacche, di Studentesse ginnaste, di Cugine sadiche, di Madri assassine, di Coniugi giustizieri. La cronaca nera, mai troppo nera per mettere al buio la fame di morbosità e curiosità con la quale giornali e televisioni apparecchiano il banchetto dell'informazione di massa. La cronaca nera, che diventa solo un po' più bianca quando le morti in fabbrica si consumano in un unico luogo e creano clamore e disperazione, perché cinque morti in una sola fabbrica sono più morti di cinque poveri malcapitati in cinque singoli cantieri sparsi per lo stivale. La cronaca nera, che ci fa sentire tutti un po' migliori di assassini, sadici e psicolabili, come se per saperlo si avesse bisogno di un confronto con la follia.
I gornali e i media in generale danno notizia e risalto a ciò che il mercato richiede, e chi come me non ama CSI o RIS non deve far altro che aspettare che il clamore si spenga e che un'altra vittima cada sotto le mani del prossimo Mister X che appassionerà il piccolo schermo.

Oggi addirittura Radio24 ha dato notizia che non è possibile intervistare i coniugi Olindo e Rosa perché l'esclusiva per le loro dichiarazioni è di assoluta proprietà di Bruno Vespa.... nel frattempo Mentana si è affrettato a scritturare lo Zio Michele e Minzolini è li che scondinzola affinché qualcuno gli dia soldi pubblici per accaparrarsi i diritti sul prossimo mostro,  che magari non sarà di Firenze, ma sicuramente da qualche parte lo si troverà.

Tutto questo è legittimo e non transigo sul fatto che ognuno è libero di appassionarsi a ciò che ritiene più giusto per la propria soddisfazione culturale, ma che almeno i Tg diano preventivamente la scaletta oraria dei loro servizi, almeno so quando posso accendere la Tv senza dovermi per forza sorbire Carlo Conti... In fin dei conti la poveretta che è morta rimane e rimarrà morta indipendentemente dai riflettori che cercano giustizia o clamore che dir si voglia, ma l'assassino di questo Paese probabilmente non finirà mai in carcere, sono già troppo piene per rinchiuderci un'intera Nazione.