giovedì 1 dicembre 2011

Le cose che contano

post molto intimista e di difficile interpretazione, ma mi è venuto così, come vengono le cose che nascono da sole. Ho cominciato a scrivere senza sapere dove sarei arrivato


Ci sono momenti nella vita in cui capita di fermarsi e metaforicamente di appoggiarsi le mani alle ginocchia, come dopo una lunga corsa, ci si piega sulla schiena e si cerca di aprire la bocca sforzando le labbra oltre la bella decenza di un sorriso, alla ricerca di ossigeno e riposo. Lo sforzo arriva con impeto, nonostante ciò che l'abbia provocato sia stata invece una progressione lenta, lenta ma inesorabile, talmente decisa che nello scorrere del tempo non c'era spazio per la fatica e per rifiatare.

Poi come tutte le cose, sia quelle faticose che quelle prive di pegni con la naturale limitatezza del fisico umano, si arriva al momento in cui le mani cercano il sostegno delle ginocchia, perché il momento della riflessione sul "come sono andate le cose" arriva quasi sempre, e quel quasi sta li a certificare che tra il "sempre" e l'uomo c'è la mai nascosta possibilità di diventare esseri viventi privi di coscienza.

Oggi sono io a fermare la mia vita e a guardare indietro un percorso che mi ha visto passare gli ultimi cinque anni alla ricerca convinta di un modo generoso e doveroso con il quale e per il quale impegnare il mio tempo libero. Una storia non la si dovrebbe mai giudicare solo dal finale, perché il finale spesso è teatrale o melodrammatico, imperfetto o inconcludente, ma rimane solo un pezzo della storia, anche se dovesse essere un bel finale. L'ultima riga delle favole, come delle storie in generale, non rende migliore o peggiore la qualità della storia stessa, ma indubbiamente ne condiziona le emozioni e le sensazioni in vista della prossima storia che si comincerà a vivere, perché i libri finiscono ma le storie della vita continuano e cominciano di continuo.

Il finale dell'impegno di questi ultimi cinque anni è amaro, come sono stati per lo più amari tutti i cinque anni, e non ho mai amato molto i portabandiera del "rifarei tutto quello che ho fatto", no, se potessi cambiarei tante cose, non solo per la convinzione che la perfezione esista solo nel Regno dei Cieli, ma per la certezza che quello che conta durante un viaggio non è tanto quel che si trova alla fine, ma come si affronta il viaggio stesso e come si impara a volersi bene e voler bene a chi te ne vuole durante il percorso.
Quando si fa un bilancio di un'esperienza della propria vita spesso si mette sul piatto di quella bilancia ipotetica il peso greve dei "se", ma il selciato del fallimento è pieno di "se", quello di un uomo è catramato di "nonostante", si diventa uomini capaci di  volersi bene "nonostante" quel che ci accade, nonostante i nostri errori e nonostante le persone che ci riversano addosso i loro errori.

In quel bilancio ciò che dovrebbe pesare sono le cose che contano, quel che si è capito e quel che si è subito, ciò che si è fatto e non quello che si sarebbe potuto fare, mettendo in bella evidenza che ogni vicenda ci da la possibilità di essere più esperti e preparati per la prossima tappa.

Ho incontrato belle persone e persone meno interessanti, ed ho incontrato persone normali, qualcuna speciale, ma l'incontro del quale avrei fatto volentieri a meno è stato quello con coloro che spesso dimenticavano che esistono altre cose oltre la propria intelligenza, esiste la giusta forma attraverso la quale si esprimono i propri pensieri, ed esiste la certezza che per non essere ipocriti non è affatto necessario sputare la verità con arroganza, perché esiste sempre e solo una soggettiva interpretazione della verità ed esistono gli altri, le altre persone, che non sempre e non per forza devono pensarla allo stesso modo, ma non per questo si deve riempire la propria bacheca mentale di nemici.

Ho imparato a non costruirmi nemici, ho imparato a non competere con chi avanza a spallate verso la sorda convinzione della propria perfezione, ho imparato a farmene una ragione, ho imparato a non dar troppo peso a un singolo capitolo della vita, cercando di vederla dall'alto, nella sua interezza. Ho imparato a non dar niente per scontato, ho imparato che la riconoscenza esiste solo tra le mura di casa e tra i nobili di cuore, ho imparato che stare da soli è più difficile che stare insieme ma ho imparato che la somma di tante solitudini non crea automaticamente un gruppo, ma un insieme.

Non ho ancora imparato a gestire i sentimenti che sgorgano potenti dopo una lunga e costante progressione, come se nell'appoggiarmi sulle ginocchia e spalancando la bocca dentro di me non entrasse solo ossigeno e riposo, ma anche delusione e saggezza. La delusione e la saggezza, quanto vorrei avere la capacità di maneggiarle con maestria, ma altri capitoli dovranno passare perché questo possa avvenire con facilità.

All'inizio ero curioso e infuocato, vedevo che tutti auspicavano l'immaginazione al potere, poi al potere spesso ho visto donne e uomini senza immaginazione che si portavano dietro solo l'immagine. Li ho racchiusi in due cerchi, quello della sedia e quello del microfono. 
Nel primo cerchio ho visto sedersi carrieristi con pochi scrupoli ma con la presunzione di non esserlo. Spesso si circondavano di mediocri, privilegiando la fedeltà al talento, l'appartenenza all'indipendenza, negando di essere diventati la fotocopia imbruttita dei mostri che volevano abbattere.
Quelli del microfono invece sono coloro che stanno nel cerchio di chi è divorato dal desiderio di piacere e dal tarlo dell'apparire, inconsapevoli che senza quel microfono la loro voce diventa muta persino alla loro anima.

Poi ci sono quelli che vedono cerchi, come me, che conoscono e riconoscono ancora l'importanza dell'impegnarsi oltre se stessi ma che troppe volte hanno visto bruciare il tempo nel falò dell'impegnarsi "per" se stessi.
Ora ho voglia di rialzare la schiena e sciogliermi i muscoli indolenziti, togliere la zavorra dall'anima e ricominciare un nuovo capitolo. Non sarà facile partire, le scorie pesano, ma in un nuovo viaggio non conta ciò che si troverà alla fine di esso, conta aver la forza di partire.

domenica 27 novembre 2011

Per favore, spegniti!


Mi capita qualche volta di assistere al bar alla partita della mia squadra del cuore. Lo ammetto, siccome nessuno è perfetto (ma per molti non è difetto), io ho un pezzetto di cuore anche per il tifo sano nei confronti di undici ragazzi che corrono dietro un pallone, ma non è di questo che voglio parlare.

Approfitto della mia frequentazione serale da cliente da bar per tornare sul precedente post, il quale parlava della manifestazione svolta a Fermignano a sostegno del rispetto reciproco tra istituzioni e cittadini. Non un inno al libertinaggio, al vivere licenzioso e dissoluto, ma un riconoscersi e riconoscere il rispetto delle regole e del buonsenso come unico collante di una società tanto sfilacciata.
Ecco, tra i tavoli di quel bar, non solo ieri sera ma anche altre sere, quell'autoregolarsi e regolamentarsi non l'ho visto in alcuni. L'ora era ancora non affatto piccola e i bicchieri man mano più grandi, fatto sta che l'impressione che mi sono fatto (e confermato), è che a tutt'oggi l'alcol rimane il problema più impattante e devastante di una fascia sociale che comincia sempre più nell'adolescenza e si dilata ancor più nella maturità (solo anagrafica).

Sia chiaro che la maggior parte delle persone che ho incrociato erano "normali", ma per una buona fetta del resto dei clienti credo che si possa parlare apertamente di qualcosa che era l'anticamera all'ubriacatura. Io non sono un proibizionista, non lo sono mai stato, sono per il libero arbitrio ma ancor meglio per il buon uso di esso. Ieri sera non ho potuto godere di una bella serata (al di là del lato prettamente sportivo) semplicemente perché qualcuno ha deciso che il suo diritto ad essere "fuori dalle righe" fosse più legittimo del mio diritto a passare una serata tranquilla.

Non credo affatto che quello che sto scrivendo sia in contrasto con quello che ho scritto circa una settimana fa, ma anzi sto cercando di ribadire che non si può pretendere il rispetto dalla Forze dell'Ordine e dalle Istituzioni magari scambiandolo per un indiscriminato "tana libera tutti".
Non entro neanche nel merito di possibili frasi del tipo "in fondo siamo stati tutti ragazzi, e chi non si è fatto mai una bella sbornia!"..... Io credo che ognuno del proprio corpo possa fare e disporne come meglio crede, ma questo non gli può permettere di intaccare l'inviolabile vincolo non scritto del rispetto e della dignità nei confronti delle altre persone, nei confronti della società in cui vive e della quale fa parte, volente o nolente.

La mattina arriva in soccorso a questi miei pensieri con un articolo nei quotidiani locali dove si afferma che su una sessantina di controlli effettuati nelle notti tra giovedi, venerdi e sabato dalle autorità competenti, sono state ritirate una ventina di patenti dopo aver sottoposto i guidatori alla prova dell'alcoltest. Realmente, non sono un medico per poter affermare se i parametri legislativi di tollerenza all'alcol siano troppo rigidi, ma so che ci sono delle leggi, e so che troppe volte questo benedetto Paese, l'Italia, si è abituata a vivere "in deroga".

So che un ragazzo in settimana quasi ci ha rimesso la vita per aver incontrato nella sua brutta giornata qualcuno che aveva deciso di vivere "in deroga" al buonsenso ancor prima che alla legge, scambiando la propria auto come il divano sul quale smaltire l'alcol in eccesso nel proprio corpo. So che non una sola vita umana può essere messa a rischio deroga da chi coscientemente decide di mettersi al volante dopo aver alzato troppo il gomito, per questo mi riconosco pienamente nell'introduzione del reato di "omicidio stradale", uno delle ultime proposte di legge lanciate dal governo precedente.
La vita non può essere a rischio deroga e non può esserlo, con meno enfasi ma con ugual convinzione, il diritto alla normalità di vivere la propria cittadinanza in piena armonia con il resto degli abitanti del proprio Paese.

Ieri, ad un certo punto della serata ho chiesto a mia moglie di alzarci e andarcene, nonostante la bellissima partita, lei mi ha convinto a restare, ad essere tollerante oltre che paziente. Lo sono stato paziente, ma in cuor mio posso forse tollerare la maleducazione di una sera, la sua reiterazione che diventa abitudine no, l'uso di essa che sfocia nell'abuso del buonsenso no, neanche per una sera. Poi va da se che l'alcolismo è una malattia sociale e che l'abuso di alcol in serate predeterminate forse non è che la sua anticamera, fatto sta che per una volta, in tanti, abbiamo chiesto di non spegnere Fermignano.
Oggi vorrei che ora in un numero ancor più importante chiedessimo al nostro vicino rumoroso e maleducato (nonché avvinazzato) di limitarsi per non limitare il nostro diritto a vivere le serate da ballo anziché da sballo, da calcio anziché da calci (metaforicamente nel sedere dei diseducati), vorrei insomma che dicessimo a colui che decide di non avere buonsenso: per favore, spegniti! Altrimenti anche lui e quelli come lui saranno coloro ai quali dovremmo imputare le luci spente in questo claudicante Paese.

sabato 19 novembre 2011

Fermignano si spegne e si accende, e non è ancora Natale


Ancora manca un mese o poco più a Natale, ma oggi, nel tardo pomeriggio, la Piazza di Fermignano si è accesa di luce e uno striscione ha dato il titolo alla manifestazione spontanea che più di 100 ragazze e ragazzi hanno realizzato e vissuto insieme.
In quello striscione c'era scritto NON SPEGNIAMO FERMIGNANO.

Girava tra le mani dei partecipanti e dei curiosi un volantino abbastanza significativo, molto snello e sintetico nella comunicazione, molto diretto nei contenuti, ovviamente non completo e non contemplativo di tutto quello che ogni singolo partecipante avrebbe voluto esprimere in pensieri e parole più corposi e in frasi meno snelle. Ma un volantino rimane un volantino e uno slogan rimane uno slogan.

L'obiettivo della manifestazione è stato quello di far capire che è nato un movimento spontaneo e apolitico di giovani cittadini che criticano lo spropositato spiegamento delle Forze dell'Ordine nei venerdi fermignanesi, che vogliono affermare con garbo la convinzione che non si fa educazione con l'intimidazione e che portano sulle spalle la certezza che non è questo il paese che vogliono, il paese immerso in uno Stato di Polizia.

Poi nello stesso volantino i ragazzi non fanno l'errore di cadere nella facile accusa di chi potrebbe pensare che allora questi giovani vogliono una sorta di libertà incondizionata, senza limiti e senza regole. Si legge che quello che auspicano per Fermignano sia che ognuno si vesta di buonsenso e responsabilità, attraverso il valore invalicabile dela legalità e del rispetto delle regole.
Queste poche parole mettono all'angolo non solo chi abusa del proprio ruolo per dare dimostrazioni di forza, non solo chi emette sanzioni ancor prima di dare consigli, ma spinge alle corde anche coloro che non hanno contribuito a rendere sano e bello il divertimento del venerdi sera. Non c'è nessuna libertà individuale che preveda la facoltà di deturpare strade e infastidire abitanti, non esiste nessun libero arbitrio che possa mettere qualcuno al riparo dalla legge. La piaga dell'alcol e delle sostanza stupefacenti tra i giovani, del vandalismo urbano, è grave e riconosciuta da tutti, ma non si può pensare che per colpa di pochi si debba etichettare tutti.

Ovviamente se tre posti di blocco mi fermano e mi fanno ripetere per tre volte la prova dell'alcol test, e in tutte e tre le occasioni risulto sobrio, non vengo privato dei miei diritti, ma perlomeno dubito che questo dispiegamento di volanti e pattuglie di una sera, di un mese o di qualche settimana possa durare nel tempo, e dubito ancor più del fatto che azioni di questo tipo portino a soluzioni condivise e durature.

La manifestazione di oggi ha dato risposte a cosa vogliono i giovani per Fermignano? No, ma nella sua esecuzione l'obiettivo era forse quello di far capire cosa non vogliono, come accade con quasi tutte le manifestazioni, si manifesta il dissenso. Quelle luci che hanno acceso la piazza non sono state e non devono essere la fine di un percorso, ma l'inizio di un civismo che porti ad un confronto in ogni sede e in ogni luogo, che porti a discutere di idee e progetti per rendere migliore il nostro paese.
Le ragazze e i ragazzi hanno il diritto di godersi le loro serate senza passare da ultrà delle strade, gli abitanti del centro hanno il diritto di veder rispettata la loro persona e le loro abitazioni. Un flash mob non risolve problemi, ma mai come questa volta potrebbe realmente avviare un percorso che porti ad un'organizzazione e ad un confronto tra tutti coloro che vogliono stare bene all'ombra della Torre.

Dico questo partendo dalla personale convinzione che non ho quasi mai visto manifestazioni di piazza, più o meno importanti, portare a qualcosa che non sia la valorizzazione del protagonismo degli organizzatori e dei partecipanti (e di manifestazioni di piazza ne ho girate qualcuna), ma stavolta ho respirato un'aria trasversale e empatica che spero non si esaurisca nello srotolarsi di quello striscione, ma che srotoli invece un tappeto rosso che porti direttamente chi ne ha voglia a mettere a disposizione parte del proprio tempo libero per rendere più libera da vandali e polizia la nostra comunità e che ci faccia respirare quell'aria di oggi pomeriggio negli altri 364 giorni dell'anno.

PS1 Mi sono divertito...
PS2 Grazie a MG per l'utilizzo della foto
PS3 (che non è la PlayStation).....Grazie a chi ha ideato, grazie a chi ha partecipato, grazie a chi ha evitato di urlare e protestare fuori dalla "righe", grazie a chi è stato ad osservare con convinzione e partecipazione e grazie anche a chi l'ha fatto con circospezione e diffidenza.... L'importante in un viaggio è sempre partire

venerdì 18 novembre 2011

...posto vuoto ce n'è stato, ce n'è ce ne sarà.


Molti dicono che il cambiamento fa paura, che la ripetizione di gesti e di mansioni rende la vita meglio riparata da sgradite sorprese, come se la sana routine disegnasse un mondo senza spigoli, ovattato e ovale, annullando al minimo il rischio di sbattere in qualche angolo ed uscirne con una botta in testa.

Io stesso, se una quindicina di anni fa mi avessero posto una domanda secca, del tipo: "ti piace il cambiamento?", proprio nel momento in cui si è (in teoria) maggiormente carichi di impeto e desiderosi e affamati di occasioni e di vita, avrei tranquillamente risposto scegliendo la sicurezza e la morbida sensazione di protezione che la staticità ti concede. Magari pensando ad un posto fisso come se lo sono immaginato e preso i nostri genitori tra gli anni '60 e gli anni '80, magari pensando alle fondamenta fisse e certe di una dimora che diventa nido ancor prima di casa nell'uomo, che un tempo nasceva nomade ma che col tempo è diventato molto più che sedentario.

Oggi i miei anni sono ormai inevitabilmente più di venti, e anche se non mi sento invecchiato precocemente né nello spirito né nel fisico, ammetto che la mia risposta a quella secca domanda sarebbe molto meno convinta di  allora. Oggi affronterei e osserverei ogni zona di buio che può nascondersi dietro una sostantivo in fondo semplice, cambiamento, che potrebbe essere avvalorato o denigrato con il pollice verso di un "si, mi piace" oppure di un "no, non mi piace". Non faccio fatica però ad ammettere che la maturità (che nel tempo è arrivata bene o male, ma che non significa che si matura sempre bene....), l'esperienza (quel poco che ho accumulato) e la passione, mi fermano alle soglie della certezza e mi mettono in testa risposte meno certe ma molto più impegnative.

Al mio interlocutore insesitente che mi pone la domanda "ti piace il cambiamento" direi che ho più paura dell'immutabile che di ciò che dovrà cambiare: ho paura di fare tra trent'anni le stesse cose che sto facendo da dieci, ho paura di passare il mio tempo libero allo stesso modo in cui lo passo oggi, ho paura di pensare che la mia cerchia di amici e conoscenti debba rimanere la stessa da qui ai prossimi lustri a venire, e soprattutto ho paura io stesso di non cambiare, perché non cambiare significa porre un muro invalicabile alla possibilità di migliorarsi. Se devo augurarmi qualcosa che non sia la salute per le persone a cui voglio bene e per me stesso, l'augurio che sentirei di rivolgermi è la possibilità di non interrompere mai il cammino verso quell'uomo migliore, diverso da quello che sono adesso, migliore....

Visto che è inutile rimpiangere scelte del passato che pesano come macigni sul presente, visto che oltre ad essere inutile è anche dannoso, visto che è altrettanto inutile e dannoso (ma purtroppo spesso inevitabile) fare la conta di chi ti ha riempito le giornate e i sogni di ipocrisia, visto che l'unica cosa che non vorrò mai cambiare di me stesso è la ferma volontà a non elemosinare opportunità e ruoli da nessuno (quelli ti si danno se si crede in te, se si vuole investire su un elemento umano valido...... in un mondo ideale), visto che del doman non v'è certezza, io continuo a cercare quella strada che porterà ad un cambiamento migliorativo di me stesso e delle occasioni che vedrò di fronte ai miei occhi.
Se non troverò né occasioni né salite sulle quali arrampicarmi per vedere tutto un po' da più in alto e riflettere sulla sana fatica messa sulle spalle, mi renderò conto che in fondo quella strada è importante anche solo da percorrere, ne vale sempre la pena camminarci sopra indipendentemente dal finale, perché se è vero che chi non si ferma mai si perde tutto è ancor più vero che chi si ferma è perduto.

Ora lascio questa sedia e questa tastiera perché sento il bisogno di mettere ordine alle tanta scatole che ho nel mio passato, ho bisogno di riporre qualcosa in maniera definitiva e di spolverare qualcos'altro, e soprattutto ho bisogno di fare spazio alle nuove scatole che arriveranno perché sin da ora ho intenzione di cercarle, perché il tempo di cambiare non è mai ieri, non è mai domani, è adesso................chiudo col Liga, ha bussato e l'ho lasciato entrare:

Ho messo via un pò di illusioni
che prima o poi basta così
ne ho messe via due o tre cartoni
comunque so che sono lì.
Ho messo via un pò di consigli
dicono è più facile
li ho messi via perchè a sbagliare
sono bravissimo da me.
Mi sto facendo un pò di posto
e che mi aspetto chi lo sa
che posto vuoto ce n'è stato ce n'è ce ne sarà.


lunedì 14 novembre 2011

Fermignano go on......


Tanto per essere sintetici e andare subito al nocciolo della questione: nel mio Paese mancano:
  • cinema
  • teatro
  • piscina pubblica
  • casa di riposo
  • piazza
  • campo polivalente pubblico e libero
  • piste ciclabili
  • piste pedonali
  • sistema di raccolta differenziata
  • postazione di monitoraggio ambientale
  • iniziative commerciali di richiamo

Potrei continuare l'elenco ma mi fermo per non far apparire questo post come l'ennesimo muro sul quale sfogare la delusione e la rassegnazione di chi crede che una città sia tale solo quando "possiede" almeno una parte delle strutture citate qui sopra.

Io credo che un Paese sia tale prima di tutto perché sono i cittadini, i suoi abitanti, ad imprimergli significato e renderlo vivo, ancor prima di opere pubbliche e strutture.
Una delle cose che spesso ho sentito dire nel momento in cui alcuni anni fa mi sono trasferito a Fermignano è che qui non c'era o non si respirava lo stesso "orgoglio di appartenenza" che invece possiederebbero i nostri vicini di Urbino, Urbania o Sant'Angelo. Questo sarebbe dovuto alle origini storiche che hanno visto la nascita e l'espansione del nostro Comune legata a doppio filo ad uno sviluppo produttivo, lavorativo, e meno a radici che affondano nella Storia, come possono vantare i durantini o i ducali.

Io non so se questo sia vero, so però che quello che è successo l'altra sera, ossia la mancata esibizione dal vivo degli Elefunky per problemi burocratici e le successive parole che sono seguite al "fattaccio", ha fatto venire a galla nelle generazioni (più o meno) giovani una solidarietà e un senso di partecipazione collettiva alla protesta (tramite il web), che ha partorito da quell'increscioso episodio un figlio molto bello, il senso di collettività

Ora, trasferire dalla rete alla piazza questo sentimento, farlo con strumenti e modi che si rivelino utili alla causa e non si consumino nella sterile protesta, organizzare e far incontrare le persone live, proprio come doveva essere live lo spettacolo di venerdi, questa sarebbe la bella conclusione di una puntata nata male, cresciuta meglio e finita in bellezza.
Per fare questo la bacchetta magica forse non ce l'ha nessuno e le soluzioni non credo siano immediate e facili, come non è facile trasformare il clic sul mouse in una stretta di mano o in una pacca sulla spalla, ma quel clic per una volta potrebbe essere realmente propedeutico ad una "folla" che diventa meno eterea e acquista i contorni e le sembianze della carne viva.

Poi il nostro Paese continuerà per tanti altri anni ad essere carente in strutture, forse non arriveranno mai, ma quel che renderà meno dormitorio e più viva ogni singola via della nostra realtà dove abbiamo deciso di stare sarà sicuramente quel senso di collettività che un piccolo grande episodio può accendere, come è successo qualche giorno fa, ma quella fiamma deve ardere in tanti e in tanti ancora per far si che tutto acquisti un significato diverso, affinché ognuno di noi possa dire non di abitare a Fermignano, ma di vivere a Fermignano e soprattutto di vivere Fermignano.

Lo spettacolo che non c'è stato mi porterebbe a dire che lo show per andare avanti almeno deve iniziare, ma visto che ci mancano tante cose, almeno la voglia ed il gusto di passare belle serate a godere di compagnia e buona musica, questo no, non può venir meno né con ordinanze né con Regi Decreti. La musica, la buona musica (come ha scritto qualcuno su FB) è cultura, e con quella cultura e quella passione sicuramente ci sarà occasione di ritrovarsi e di dimostrare che non serve alzare il gomito per sentir meglio dalle orecchie. E in fondo lo spettacolo, quello della gente che si incontra, è davvero iniziato, adesso bisogna che arrivi il go on....

Per chiudere do spazio ai ricordi: il Cinema si chiamava Holiday e mai nome fu più azzeccato visto che ormai è andato in vacanza da anni,  il teatro non si è mai chiamato, ma io in fondo posso dire di essere fortunato. Io ho passato i miei primi venti e passa anni della mia vita in un "quartiere" di Fermignano abitato da Vandali e privo di ogni cosa che lo possa rendere appetibile (ovviamente scherzo), ma in tutta sincerità a Fermignano non ci sto poi così male, è solo che vorrei finalmente starci BENE.

sabato 12 novembre 2011

Suonala ancora Andy

Il putiferio mediatico, il fiume di parole e di sdegno che sono seguite alla nota di Andy Guerra Dov'é il mio Paese, ha lasciato tutti con un bagaglio di frustrazione e incredulità, sentimenti che hanno sopravanzato il primo istinto legato alla rabbia.

Quello che più mi ha lasciato male è il dolore di chi è stato privato della sua passione, ancora prima e ancor più del fatto nella sua cronaca. Un episodio comunque increscioso e delineato dai colori dell'abuso di potere, tipico di chi crede che le Forze dell'ordine non hanno alternative all'uso della forza, e si scordano invece che prima di attivare la sanzione è molto più proficuo ed intelligente usare la persuasione.

Autorità e autorevolezza, le due parole che spesso si sfidano, si confrontano e talvolta si mescolano. E' autorevole colui che attraverso un opera costante di persuasione e condivisione riesce a trasmettere alla maggioranza delle persone un'idea, una motivazione alle proprie azioni, creando i presupposti affinché la sua volontà diventi la volontà di molti. E' autoritario colui che si scorda dei motivi per i quali indossa una fascia tricolore, si scorda dei motivi che l'hanno portato ad indossare una divisa, si scorda che senza quella fascia e quella divisa, nudi, sono tali e quali a tutti noi. Ma non si cammina nudi per strada e oltre al vestito si indossa il proprio ruolo, ecco, il modo di "indossare" il proprio ruolo rende diversa una persona dall'altra.

Le regole, la legge, gli ordini, tutte cose sulle quali si basa la società moderna, tutte cose per le quali vale la pena combattere battaglie, ma tutte cose incompiute senza l'unico ingrediente che le rende utili, il buonsenso.
Se sul comodino, prima di uscire dopo essersi vestiti, ci si dimentica di mettere in tasca il buonsenso accade ciò che è accaduto ad Andy, ai suoi colleghi ed amici e a tutti coloro che avevano il diritto di poter passare il proprio tempo con l'intelligenza vicino ad un bicchiere e con la musica a rendere le sere meno nere e molto più vere.
Certo, mancava un permesso, ma essendo una novità degli ultimi giorni quel buonsenso e quella autorevolezza avrebbero reso servizio alla cittadinanza se invece della richiesta di permesso si fosse concesso il permesso di suonare a chi è nato per farlo.

Mi dispiace leggere la profonda delusione nelle parole di Andy, mi dispiace che le buone intenzioni dell'amministrazione e delle forze dell'ordine siano scivolate nel burrone dell'autoritarismo e dello Stato di Polizia, nel proibizionismo e nella repressione che mai hanno portato a nulla ogni volta che si sono limitate all'uso della forza dimenticandosi la lungimiranza.
Nessuno vuole difendere e promuovere l'abuso di alcolici (e di sostanza stupefacenti), nessuno crede che il diritto alla propria libertà preveda anche quello di mettersi ubriachi al volante, ma come la democrazia non si può esportare con la guerra, le regole e la legge non possono essere esportate con ordinanze e mitra.
Qui sta il paradosso: cosa porta una persona a decidere autonomamente che è venuto il momento di posare il bicchiere per non rischiare di esagerare? il buonsenso, molto più della paura delle sanzioni. Ecco, senza il buonsenso di chi amministra, di chi difende e promuove la legge, non ha senso pretendere che la cittadinanza lo acquisisca da chi non ce l'ha.

Quello che è successo è successo, la gente si è espressa, la musica si è fermata per una sera, ma la musica in fondo non si ferma mai. Sul Titanic che stava affondando l'orchestra continuò a suonare: con la speranza che Fermignano non vada a fondo io continuo ad ascoltare le note e gli strumenti, che suonano, e suonano e suonano..... Suonala ancora, suonala ancora Andy.

venerdì 11 novembre 2011

E continuiamo così. Facciamoci del male!

Oggi dovrei parlare dei tre 11 che si ripetono nella data a calendario, o magari del tentativo di dare all'Italia un Monti dopo averne fatti fuori Tre(Monti) assieme a Sua Emittenza, o forse potrei scivolare di lato e semplicemente attendere che la mia testa faccia clic su un argomento di interesse collettivo oltre che personale (con l'assurda convinzione che qualcuno legga questo post!), ma quando ormai un pensiero si mette a far compagnia a quei pochi neuroni del cervello che possiedo, difficilmente riesco a scansarlo e inghiottirlo passandolo alla trachea.

Non parlo a caso di inghiottire e di trachea, ma forse sarebbe meglio usare la parole "assaporare", già, perché oggi vorrei parlare di quella cosa che è stata messa al mondo per far risaltare il fatto che l'amaro esiste proprio perché esiste il dolce: parlo del cioccolato.

Ora, ho passato gli ultimi mesi a cercar di perdere peso non tanto e non esclusivamente per vanità ma per un fastidioso problema alla spalla che solo il movimento può mettere a tacere, e saltato il preambolo devo dire che la cosa che più mi è mancata durante questa volontaria astensione dai piaceri della cucina è stato proprio il piacere più volubile e superfluo di tutti, il cioccolato.

Ovviamente non sono un integralista delle diete né un salutista dell'ultim'ora, ne ho mangiati di piatti di pasta e di dolci in questi duecento giorni, ma ora le cose stanno pian piano mutando, quel richiamo alle delizie del palato reso visibile dall'invitante aspetto di una torta o dal luccicante involucro di un ciccolatino oggi bussa alle porte dei miei occhi molto più di ieri, e non c'è corsa che tenga.

Sarà che quando il sole non ha più quella bellezza tipica dell'estate tutto si colora di grigio, sarà che il mio buonumore ha il termometro che volge verso temperature piuttosto freddine, sarà che il cioccolato è cioccolato, oggi non ho resistito e mi sono lasciato andare ad un incontro privato con cioccolata che sotto varie forme ha reso decisamente dolce il mio pomeriggio.

Come tutte le cose buone la controindicazione di un pomeriggio di un giorno da golosi è quel conto che la bilancia e le analisi del sangue ti presentano ogni qualvolta ci si scorda che la moderazione è un altro ingrediente fondamentale per rendere dolce la nostra vita e meno tondo il girovita, ma non nego che mi piacerebbe scoprire un giorno o l'altro che magari si sia inventato un cioccolato a zero calorie che sappia veramente di cioccolato (in fondo con la Coca Cola ci sono riusciti), ma forse la soddisfazione di cedere alle avanches del cibo degli dei poi non sarebbe in fondo la stessa.

Alzi la mano chi non ha mai tolto il freno a mano di fronte ad un barattolo di Nutella o ad una barretta di cioccolato al latte, o magari chi ha saputo rinunciare al piacere adulto del cioccolato fondente. Le mie mani rimangono attaccate al busto, non perché l'ho confessato poche righe prima, ma perché credo che in fondo "il tabacco può uccidere mentre il cioccolato no" come dice uno che se ne intende (Fidel Castro), e mi tornano alla mente le giornate passate a preparare esami universitari dove si alternavano ai caffé le prelibatezze di qualche cioccolatino che si scioglieva in bocca e con esso si scioglieva la tensione dello studio.
Sarà che sono rimasto "fulminato" dal film Sogni d'oro di Nanni Moretti e da quella battuta che ad un  certo punto accende un dialogo balbettante: "Come? Lei non ha mai sentito parlare della Sacher Torte? E continuiamo così. Facciamoci del male!"

Io oggi ho evitato un post sdolcinato pur facendolo piuttosto zuccherino, ma non potevo continuare a "farmi del male", io il cioccolato me lo sono meritato, il cioccolato è un diritto!  Lo scrivo per sentirmi meno in colpa, lo scrivo per sentirmi in compagnia, lo scrivo perché ho voglia di farlo, proprio come la voglia che mi sono tolto qualche ora fa, lo scrivo perché "in fondo la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita".......

mercoledì 9 novembre 2011

Cloni e Berlusconi

Prima il lungo auspicio della caduta degli Dei, leggesi Silvio Berlusconi e il suo Governo, poi la trepidazione per un avvenimento che giorno dopo giorni diventava sempre più probabile, infine le parole raccolte nel comunicato del Presidente della Repubblica di ieri (ribadite chiaramente oggi) che certificano che dopo 18 anni Silvio Berlusconi nei prossimi giorni, attraverso le sue annunciate dimissioni,  (probabilmente) scriverà la parola fine ad un periodo che prima era un lustro, poi sono diventati due, poi tre e poi ha raggiunto la maggior età.

Berlusconi, il berlusconismo, il Caimano, Sua Emittenza... Lo ammetto, pur tifando e sperando per il bene dell'Italia di non dovermi mai più far rappresentare da quest'uomo come capo del Governo (e non l'ho mai votato), le immagini di quel volto di uomo sconfitto e tramortito, addolorato e iracondo, non mi hanno provocato gioia, anzi, se devo dirla tutta, ho provato compassione.

Era ed è inevitabile che le stagioni politiche e le carriere prima o poi finiscano, quindi anche il regno di Superman Silvio prima o poi si sarebbe dovuto presentare all'appuntamento con l'ultima pagina di un libro che oggi è di cronaca e domani sarà di Storia. Ma io non esulto, non ringrazio né il cielo né Dio, non ringrazio la Carlucci e non sputo su quegli italiani che democraticamente hanno eletto questo governo ed il suo rappresentate, non lo faccio non solo per educazione, ma perché la 'battaglia' politica non è vinta, è persa da tempo.

Ce l'ha fatto vedere Nanni Moretti, l'ha scritto oggi Gramellini sulla Stampa, Berlusconi da anni non è più il Problema di questo Paese, lo è quello che chiamiamo il berlusconismo, i BerlusCloni. Questo fenomeno non connota un solo emisfero politico, non è un fenomeno di destra, è da tempo circolare, è entrato dentro tutti i partiti, sia personali che velleitariamente democratici, che rappresentano questa sgangherata Seconda Repubblica.

Di che cosa parlo? Di protagonismo spinto ben oltre la giusta dose di ambizione, di pressapochismo confuso con l'esigenza di comunicare rapidamente, del "muoia Sansone con tutti i Filistei" quando qualcuno si mette di traverso al politico rampante di turno, del contorniarsi di servi fedeli piuttosto che di collaboratori leali, di scambiare i Partiti Politici con taxi sui quali salire per arrivare da un punto ad un altro della propria carriera, del "chi non si allinea o lo si distrugge o lo si stanca". Parlo di tutto questo e di tanto altro, e mi fa male il Mondo pensare che si possa pensare di riassumere in un unica persona la responsabilità di tutto questo, e viceversa relegare alla sua fine la fine di tutto questo.

Per paradosso mi fanno più schifo coloro che attaccano Berlusconi e non si rendono conto o fanno finta, di rappresentare nel loro minuscolo microcosmo tutto quello che disprezzano nel futuro ex premier; mi fanno schifo coloro che parlano a vanvera di conflitto di interesse e lo vedono solo nell'uomo nero senza mai tener conto di quello che fanno loro, di quello che fanno questi politici senza macchia, delle loro assunzioni di corti di leccapiedi e di favori ad amici di amici di amici.

Tornando a Moretti qualcuno ha sostenuto che la sua profezia, nel finale del Caimano, è stata sbagliata ed esagerata, che il finale politico di Berlusconi non ha visto né falò per strada e né bombe che scoppiano, ma in realtà quel messaggio e quella profezia sono lì a ricordarci che tutto questo è già avvenuto ogni volta che vediamo mettere lo show al posto dei contenuti, i divi da aperitivi al posto di coloro che curvano la schiena su documenti, i manifesti che prendono il posto degli onesti.

Berlusconi non è arrivato dal nulla e non ha fatto tutto da solo. Berlusconi è stato una conseguenza e non una causa. Ieri io non ho vinto, oggi neanche, domani chissà

lunedì 7 novembre 2011

"guai a chi prova a dire che noi non siamo credibili"

In piazza, in piazza, in piazza a manifestare. Poco importa che si rischia sempre di perdere una "i" è quella piazza potrebbe diventare pazza, ma questo succede solo raramente (per fortuna) e sempre quando c'è la volontà che succeda.

La piazza "normale" è bellissima e rimane e rimarrà sempre l'occasione di vivere la gente e le persone per quel che sono e che meritano, lontano dalle cornici delle loro case e vicino all'essenza della loro interiorità.
La piazza è seducente perché tante persone in un posto solo ti mettono al riparo, ti rassicurano, ti convincono, specie se il motivo dell'adunata di piazza nasce dentro le proprie radicate idee e nella speranza che tutto questo serva  a farle uscire da se stessi e a portarle nella concretezza delle stanza dei bottoni.

La Piazza, quando non ha a che fare con la violenza, non si schernisce mai,  non la si critica mai e la si rispetta nella totalità di essa e in ogni singola persona che decide di scenderci piuttosto che rimanersene comodo a casa o costretto al lavoro. Le manifestazioni di piazza, di qualunque colore, quando hanno alla base messaggi pacifici ma anche decisi, sono la storia del percorso democratico di tanti paesi.
Anche i partiti hanno il diritto e il dovere di stare in piazza, come ha fatto il Partito Democratico sabato scorso, e farlo con quella convinzione e con quella serietà da merito alle persone che hanno di fatto impresso significato a quel momento collettivo, che diventa appunto significativo proprio perché fatto in collettività.

Ora però non credo sia reato di lesa maestà poter guardare alle motivazioni politiche che stanno alla base di molte di queste manifestazioni, sempre nel ripetto di organizzatori e partecipanti (che poi diventano la stessa cosa perché chi partecipa organizza e realizza di fatto l'evento).
La piazza che ho visto io in diretta quasi integrale era una piazza di gente perbene, di militani, era un richiamo di Bersani all'orgoglio di essere del partito di opposizione più grande. Era il tentativo di dire con il megafono e non solo con il microfono il famoso leit motiv "Berlusconi si deve dimettere".
E' stata insomma una piazza di "fedeli", di tesserati e simpatizzanti, che non ha certo richiamato quel 30% e oltre di cittadini che hanno dato ormai per scontato che non andranno a votare alle prossime elezioni, indipendentemente da quando ci saranno. E' stata una piazza di richiamo alle armi di chi ha già le idee chiare, di chi ha voglia di sentirsi dire dal suo capitano che nessuno ha il diritto di prenderli e di prenderci in giro.

E' stata anche a mio modo di vedere, una piazza in difesa, ossia a difesa della propria riserva, di quel 26, 27 o 28% di chi andrà a votare PD (tra quelli che andranno a votare) alle prossime elezioni, è stata la volonta di piantare chiodi più forti e decisi alla riserva indiana che, pur grande che sia, rimane una riserva, e che in quelle piazze e con quelle piazzate mai riuscirà ad aprire steccati piuttosto che a serrarli.

La passione per la politica che ha mosso la quasi totalità dei partecipanti al raduno di Roma non è in discussione, semmai lo è l'uso dello strumento e l'obiettivo che esso si poneva, semmai lo è un discorso di Bersani deludente e già sentito ancor prima che cominciasse a farlo, semmai lo è la linea di difesa che ha fatto da filo conduttore a tutta la prima parte del comizio del segretario del PD. Quel "guai a chi prova a dire che noi non siamo credibili" che già di per se ammette la debolezza della non credibilità del messaggio di chi critica il governo da sempre, ma fa fatica a essere visto come alternativa. Lo è il credere che fischiare Renzi sia comprensibile e non si spende una parola per dire invece che è sbagliato. E' in discussione poi il fatto che continuare a serrare le fila per sentirsi più forti e prendersi visibilità, alla lunga depotenzia lo strumento stesso dello "scendere in piazza" e ottiene l'effetto di trovare amici di percorso tra quelli che già c'erano senza aggiungerne nemmeno uno di quelli che un tempo c'erano o di quelli che non ci sono mai stati.

Berlusconi cadrà, ma non saranno le spallate di Piazza San Giovanni a farlo abdicare né le richieste di Bersani, saranno i mercati e i signori delle Banche, sarà il famigerato spread, sarà l'Europa a farlo cadere, perché l'Italia non c'è riuscita da sola.... Bum (onomatopea di auspicio di caduta)

giovedì 3 novembre 2011

Con Conoscenza e Coscienza

Il carbonaro Santoro si rifugia in 'gran segreto' sul web e tra le pieghe di antenne satellitari ed emittenti locali per salvaguardare (a suo dire) almeno un'ultima isola di informazione libera, di verità. Come fu con Raiperunanotte e successivamente con Tuttinpiedi. Sarà un grande successo. ciò che si voleva silenziare sarà detto, ciò che non si doveva mostrare sarà mostrato.

Il vuoto da colmare in quest'Italia rimane l'eterno vuoto di sapere. Stasera come ieri e come domani sapremo che la Casta non ha smesso di essere tale, che gli operai continueranno ad essere senza un lavoro. E quel che è peggio, dimenticati. Siamo ormai abituati a sentire storie come queste, quelle di chi ci chiede di tirare la cinghia e l'unica cosa che si tira per sé sono le ire funeste di quel popolo che ancora si vuol bue. Abbiamo visto tutto, gridiamo su piazze reali e virtuali che siamo stanchi e che non ne possiamo più ma in questo eterno momento non succede nulla che possa far girare repentinamente la nostra testa per rubarci l'attenzione che merita il futuro, quando arriva all'improvviso dopo che lo aspetti da mesi, anni, lustri.

E ripenso a Mario Monicelli, che di Santoro fu ospite più di un anno e mezzo fa, nella prima incursione fuori da mamma Rai per l'ex conduttore di Annozero.
Riprendo in parte ciò che scrissi qualche mese fa, (ancora non ero un blogger), con la voglia di fissarlo tra le pagine di questo sperduto post perché le parole del regista ancora oggi mi scavano l'anima come una goccia nella roccia:

Monicelli invita ad abbandonare la speranza e ad abbracciare la rivoluzione. Non una 'rivoluzione culturale' o comunque sia 'democratica', come quella che riuscì tanto bene ad Allende in Cile, e che pure sarebbe auspicabile (per quanto noi non siamo certo il Cile di Allende, dove gli operai delle miniere di rame scioperavano leggendo le poesie di Neruda. Con Neruda. Noi siamo l'Italia degli operai dell'Eutelia o di Termini Imerese, ugualmente degni, per carità, ma che gli va di lusso se riescono a farsi invitare a San Remo, con la Clerici!). No, una rivoluzione vera, di quelle dove si tira il grilletto e qualcuno finisce appeso a testa in giù sulla pubblica piazza. [.....] Monicelli poi, dopo un lieve sospiro e le palpebre che tradiscono uno sguardo deluso, afferma che una rivoluzione del genere è impensabile in Italia, specialmente adesso. Perchè "per tirare il grilletto e sperare di vivere abbastanza a lungo per raccontarlo, non basta essere incazzati, ci vuole qualcos'altro. Ci vuole la fame. Quella che non ti lascia alternative. L'unica forza che ha il potere di unire i disperati sotto un'unica bandiera". 

L'avvilimento e la rabbia di Monicelli, forse è proprio questo che mi lascia la bocca amara a distanza di mesi. Premesso che spero che il grilletto non sia premuto né da giustizieri né da bersaglieri di nessuno stampo, penso che per lui fu molto difficile accettare che settantacinque anni di sforzi compiuti per tentare di far capire la gente, di farla ragionare, di metterla di fronte alle proprie contraddizioni ed ai propri limiti oltre che, ovviamente, di emozionarla, si fossero risolti nella vacuità di un uomo aggrappato al potere e nell'immobilismo di una stagione che da trent'anni sembra non debba finire mai.
 
Credo che se questo stato di cose dovesse essere sconvolto da un cambiamento economico radicale (default o bancarotta), si rischierà davvero di precipitare nella fame, di ritornare al via come al Monopoli, con gli italiani, normalmente proni ad ogni tipo di presa per i fondelli, che si faranno nuovamente girare le scatole e allora si che i grilletti rischieranno di essere premuti.

Sono partito da Santoro, sono passato per Monicelli e tocco anche Pasolini, il quale affermava che "in Italia tutto è a mezzo", come a dire che l'eterna incompiuta è vestita da sempre di tricolore.
Per arrivare alla fine occorrerebbe cominciare col prendere l'abitudine a fuggire dal tempo dell'inganno universale, cominciare ad essere rivoluzionari riponendo armi e brandendo verità, e se c'è la verità, la libertà non può essere tanto lontana.

Basta non credere che per accendere la fiamma del cambiamento sia sufficiente guardare in tv una trasmissione "alternativa", o magari leggendo manuali improvidi lontani dai giornali dei benpensanti. Per essere davvero liberi occorre conoscere, sapere, battere e controbattere, e mai limitarsi a fare "copia e incolla" di notizie da animapopolo e di frasi che si abbinano bene all'arredamento del bar. La vera arma di distruzione di massa è la Conoscenza, una delle poche amiche utili della Coscienza. Entrambe ci rendono liberi ed entrambe ci rendono capaci di comprendere che la conoscenza non va esportata con la forza (come qualcuno fa con la democrazia), ma va coltivata con l'amore col quale si coltiva una pianta fragile e delicata, che col tempo assume le nostre sembianze. Occorre dedicargli tempo ogni giorno, senza mai pensare di averlo fatto abbastanza, perché se non si finisce mai di imparare, non ci si sazierà mai di stupirsi.

lunedì 31 ottobre 2011

undici e poi dodici e poi tredici

A volte capita che davanti ad un foglio bianco si abbia la voglia di far prevalere l'immacolatezza di quel candore piuttosto che la volontà della penna. A volte capita che di fronte ad una schermata, anch'essa bianca, vinca la pigrizia di riempirla cercando parole di altri piuttosto che farle uscire da sé.

A volta capita di trovarsi davanti ad un foglio che una volta era sicuramente bianco, ma che prima di arrivare nelle tue mani qualcuno a contribuito a renderlo diverso, ad arricchirlo con pensieri e frasi che hanno la capacità di bussare alla tua testa e di chiedere il permesso di entrare, con intelligenza e sorpresa, e con un modo di presentarsi che invita non solo a farle entrare in testa, ma anche nel cuore.

Non parlo in astratto, ma concretamente mi riferisco al foglio che i ragazzi del Progettoundici hanno distribuito nelle edicole di Fermignano in questi giorni.
Non un giornale, ma un vero e proprio foglio formato A3 che lascia poco spazio alla grafica e alla creatività artistica perché la vera creatività sta in ciò che c'è scritto.
Si parla di Fermignano, si parla di noi che viviamo a Fermignano, si parla di come vorremmo e potremmo vivere Fermignano, e si parla del paesaggio interiore che ognuno di noi porta con sé, citando Eugenio Montale.

Nel Progettoundici ho visto il coraggio di esprimere opinioni e mettere sul tavolo punti di vista senza il timore di doversi scrollare di dosso etichette o di doversi riparare da attacchi provenienti da ogni angolatura, che sia destra o sinistra.
Parlare di política non parlando il politichese è possibile, come è possibile avere idee e visuali che non dipendono da comitati di sezione né tantomeno da direzioni sovracomunali.

Si parla lasciando tracimare l'amore per il proprio paese che è anche e soprattutto l'amore per il proprio Paese, si parla del fatto che non esiste la possibilità di spezzare con un taglio netto il confine tra bello e brutto, lo fa prendendo ad esempio l'opera con la quale la precedente (e attuale) amministrazione ha contraddistinto la propria copertina di propaganda elettorale. Si parla quindi della Scalinata, o del Teatro all'aperto, o di quell'ibrido che ne viene fuori dal punto di vista lessicale se si lascia spazio all'opinione di ognuno degli oltre ottomila abitanti di questa cittadina.

Si parla chiaro, si dice che una scalinata è tale se è possibile salire o scendere da ogni centimetro di essa, e si va oltre la mera definizione architettonica. Si dice che un Teatro all'aperto è tale quando il pubblico si siede sui gradoni (una volta gradini) e osserva lo spettacolo dall'alto al basso e non il contrario (e per pignoleria si tratterebbe comunque di anfiteatro e non teatro). Si parla del fatto che non ha senso mettere sulla stessa bilancia ciò che c'era prima e ciò che c'è adesso.

Ma parlando della scalinata si scalano piani che in questo mondo spesso non sono molto popolosi né popolari, si parla della capacità di ognuno di noi di pensare ad altre categorie da affiancare (e certo non sostituire) al concetto bianco/nero di bello e brutto, e lo si fa non parlando a noi stessi ma usando quel Noi per provare a riattivare una coscienza civica che esce dalle proprie case e si riversa in quelle strade dove Gaber affermava che solo lì si può trovare l'unica salvezza.
Scendere in strada? No, salire in strada per osservare, capire, parlare, confrontarsi e condividere, senza steccati ideologici né barriere mentali, lo si può fare partendo da un foglio bianco, da un monitor anch'esso bianco, ma soprattutto da un animo bianco, colore della genuinità di chi non ha secondi fini e con unico obiettivo la possibilità di sentirsi meno soli, in un mondo migliore. Non siamo solo numeri.

giovedì 27 ottobre 2011

CialTrony... Ovvero come passare dalla ressa alla rissa


da "Il Messagero.it" del 27/10/2011
"Oltre ottomila persone hanno preso d’assalto il nuovo centro commerciale Trony di Roma, vicino al ponte Milvio, mandando in tilt il traffico. Studenti, liberi professionisti, impiegati, disoccupati, tutti a caccia del prodotto messo in vendita a prezzi stracciati per promuovere l’apertura del maxi negozio. Una notte in fila. La piccola folla che si è accampata ordinatamente fuori le porte fin dalle11 di ieri sera si è gonfiata a dismisura con il passare delle ore: alle 9 del mattino è scattata la ressa. Decine di persone hanno tentato di scavalcare le transenne: «Sono stati attimi di panico, sono volati calci e pugni, qualcuno ha infranto un vetro del negozio a colpi di casco: due ragazze sono state letteralmente calpestate dalla folla, e una signora ha avuto un attacco di panico»
Tutto si può In Italia, a Roma in particolare. Per reclamizzarsi una nota catena commerciale manda un depliant con offerte allettanti, ma solo per un determinato negozio e per un numero limitato in quantità di articoli. Il risultato? si aprono le cateratte degli illusi che dalla sera prima si mettono in coda per l'accaparramento. Ma se una pioggia abbondante può essere neutralizzata pulendo i tombini, cosa si può fare in una città di 3 milioni di abitanti se tutti decidono che sono interessati a tali offerte? Sarebbe ora di mettere fine a tali sistemi di offerta che, con limitato costo per l'azienda rispetto alla ricaduta pubblicitaria, poi producono disagi se non danni alla comunità.
Quante volte vi è capitato di entrare in un supermercato attirati da allettanti sconti per poi scoprire che il prodotto è terminato? Il rimedio? semplice: l'offerta è contrattualmente vincolante nei confronti dei clienti per tutta la durata temporale della stessa e per un numero illimitato di pezzi. In caso di esaurimento si procederà a raccogliere le prenotazioni alle identiche condizioni. Troppo oneroso? allora non si fanno le offerte, si abbassa semplicemente i prezzi della merce.
Con i propri soldi la gente può fare quello che vuole, la libertà sta anche nel decidere di spendere nella maniera più voluttuaria e indefinita anche quello che paradossalmente non si ha in tasca (basta affidarsi a una Banca che si fida di te dandoti un Fido). Si compra a credito, si fanno rate per Tv, Computer, cellulari, vacanze...
Lavorare in un supermercato è una esperienza sociale unica. Se si ha la pazienza di osservare e la voglia di ascoltare, si riesce a realizzare un quadro concreto su quella che è oggi la situazione economica delle famiglie del nostro territorio; prima dell’Istat, prima del rapporto depito|Pil.
La corsa sfrenata all’offerta del megastore romano, il ricorso sempre più insistente a una spesa pseudo intelligente, nascondono però l’inquietudine di chi non è pronto a rinunciare a niente di fondamentale per il nostro attuale stile di vita.
Gente che entra con jeans da 200 euro e si lamenta per l’aumento della pasta di semola. Gente che fa incetta di prodotti in “due per uno” e che probabilmente dovrà fare uno sforzo immane per non fare andare in scadenza ciò che accumula nel carrello. Gente che come me talvolta comincia a lavorare alle sei di mattina, vestita di stracci e pronta ad andare nel cantiere edile, con ai piedi un paio di ciabatte, nonostante i 5/6 gradi di temperatura mattutina, ma con in mano un iPhone di ultima generazione.
Io non osservo fuori dal macchione, probabilmente ci sto in mezzo come il muschio sta nelle cortecce delle pinete, ma non posso nascondere che la ressa e la rissa per "vincere la lotteria del sottocosto" mi fa veramente tristezza, come mi fa tristezza l'esibizione di false griffe di prodotti made in China perché non si ha il coraggio di rinunciare alla patacca pur di "fare il patacca".
Questa è la mia opinione, posso sbagliarmi, posso essere una nota stonata fuori dal coro della maggioranza, allora abbasso il volume e l'ambizione di essere letto da qualcuno e vado a letto, magari guardandomi un talk show nel nuovo 40 pollici di ultima generazione, ma come dice Daniele Silvestri, "non serve aumentare la definizione per vedere più grande un coglione"....... Buona notte

lunedì 24 ottobre 2011

Solo nel sole di una canzone


Avevo 15 anni e me ne stavo in una fila di mezzo di un'autobus che ci ostinavamo a chiamare Corriera, per sentirci più grandi e più importanti. Tornavamo da Tivoli nella nostra prima gita da liceali d'assalto: sorrisi smaglianti, sguardi ombrosi, ricercati e aria fresca e irriverente che contraddistingue una fase di vita irripetibile, come tutte le fasi di vita d'altronde!

Qualcuno già cominciava a fumare, qualcun'altro cominciava a studiare da ribelle e qualcuno cominciava a studiare e basta. Tivoli ci aveva lasciato dentro il fascino e l'impertinenza della nostra grandezza Italiana, ci aveva gratuitamente donato la sua scenografia per il nostro show, lo spettacolo della nuova avventura che conclude il primo anno tra i banchi dei "grandi", e noi l'avevamo accolta a piene mani, respirando a pieni polmoni l'emozione di non emozionarsi per sentirsi onnipotenti.

E poi è arrivato lei..... no, non una donna, ma una canzone, una canzone che portava il sole dentro, letteralmente. La cantava un ragazzo con una chitarra, e attorno a lui, nel prato dei giardini di Tivoli, ragazzi e ragazze che si lasciavano andare a quelle corde che emanavano musica balbettante, ma che alle mie orecchie sembrava la più bella delle melodie mai sentite.
Il ragazzo diceva che suonarla era facile, che si trattava in fondo di solo tre accordi che si ripetevano continuamente(e io che pensavo che gli accordi fossero solo quelli tra me e mio padre per portarmi a casa una paghetta che oggi apprezzo decisamente più di ieri).

Era facile, e per questo bellissima. Era moderna, e per questo immortale. Era semplice, e per questo apprezzata da tanti. Era coraggiosa, e per questo non strizzava l'occhio al tormentone di un ritornello che se ne andava giù in gola come l'acqua fresca in un afoso pomeriggio di maggio, quando l'estate è ancora dietro le colline ma i suoi colori sembrano non voler rispettare tempi e temperature.

Era ed è ancora lei, LA CANZONE DEL SOLE, la canzone delle bionde trecce e del mare nero, della mano che non vuole fermarsi e delle biciclette abbandonate, di una bambina che diventa donna e della paura del cambiamento, la canzone con tutto dentro e con niente fuori.

L'ho fatta vivere dentro di me per quell'intero pomeriggio, e poi, una volta a casa ho chiesto a mio padre di chi fosse. Non c'era Internet, eMule, Wikipedia, ma c'era però la cara vecchia enciclopedia cartacea pagata a rate, e lì ho trovato il nome di colui che ha segnato l'adolescenza mia e di tanti altri adolescenti nati in anni diversi, ma passati tutti o quasi per le sue note, le sue parole, la sua voce monocorde unica e stonata, ma assolutamente fantastica, lui era ed è Lucio Battisti, il costruttore di sogni. Poi arrivava l'architetto che quei sogni li realizzava, Mogol. Insieme sono stati una pagina non più percorribile della musica e della cultura italiana, a metà strada tra gli abbronzatissimi e le canzoni con Dio che è morto. Unici nel loro genere e per questo ancora oggi vivi.

La Canzone del Sole ha 40 anni, c'era prima di me e ci sarà dopo di me, mentre Lucio non abita più questo mondo da qualche anno. Imparai della sua morte all'università, si navigava per le prime volte su internet e non nel mare, ma quella notizia il mare lo fece diventare davvero nero e bloccò i poveri modem a 56k che si affacciavano sul Mondo dell'informazione di massa. "Lucio Battisti è morto", ma in fondo lo era da tempo, "quel Lucio Battisti", quello di Battisti/Mogol e dei duetti con Mina era ormai un eremita che aveva (forse giustamente) abbandonato un mondo che era diventato sempre più patinato e finto e sempre meno aperto ai geni come lui. Lucio era genio perché era avanti, coltissimo, "perchè passava il tempo non come i dilettenti a creare, ma ad ascoltare", come ha raccontato di lui il suo vecchio amico Mogol.

Se ne era andato ancor prima di farlo sul serio, e senza disturbare aveva rivoluzionato il mondo della musica italiana per sempre, fino al punto che un giorno un ragazzo biondo, senza trecce ma con la fiamma accesa nel fondo degli occhi, decide di pensare e ripensare a quel giorno di quasi vent'anni fa, con un sottofondo unico che finisce così: 

"Il sole quando sorge, sorge piano e poi
la luce si diffonde tutto intorno a noi
le ombre ed i fantasmi della notte sono alberi
e cespugli ancora in fiore
sono gli occhi di una donna
ancora piena d'amore"

Da solo nel sole di una canzone che è un raggio di vita di ognuno di noi, perché le canzoni sono come le poesie, appartengono a chi le ascolta e non solo a chi le scrive...

giovedì 20 ottobre 2011

fuoco e fiamme e auto in panne


Un poveraccio dentro una buca, una talpa chiusa sotto terra con l'arma in pugno e con salda in mano la tenacia di "tirare a campare" finché gli è stato possibile. Questa è la fine di Gheddafi, come simile è stata la fine di molti prepotenti diventati impotenti una volta messi di fronte all'inevitabile finale di una vita condotta sempre usando la violenza. La violenza è come un fuoco d'artificio, la manovri, la maneggi, ti rassicuri e diverti in maniera sadica nel vederne le conseguenze, ma come capita a tanti, prima o poi a giocare col fuoco si finisce sul rogo.

Gheddafi come Bin Laden, come prima di lui Saddam, Stalin, Lenin, Hitler,  e come finiscono spesso tanti mafiosi che scambiamo come padroni del Mondo e che invece ce li ritroviamo a vivere in catapecchie miserevoli che sono ben peggio delle prigioni indecenti di cui è dotato questo Paese incivile (almeno dal punto di vista carcerario).

"Sic Transit gloria mundi", così passa la gloria di questo mondo (in senso lato: "come sono passeggere le cose del mondo"). La frase viene pronunciata durante la cerimonia di elezione di un nuovo Pontefice. C'è un Cardinale che enunciando questa frase di fronte al nuovo papa, contemporaneamente spegne una fiamma posta su di un'asta. Ciò che brucia un secondo dopo non brucia più, la fiamma scompare, per ricordare all'uomo più vicino a Dio che anche la Gloria di questo Mondo terreno è destinata a spegnersi in un batter d'occhio. Il Papa quindi si genuflette ed è portato alla riflessione.
Se si esce dall'ecclesiale la si può leggere in maniera molto più terrena, basta immaginarsi la magnificenza e l'eleganze di una lussuosa auto degli anni 50, tirata a lucido e con tanto di autista con cappello, in lento movimento tra strade ancora lontane dal diventare trafficate. Per quelle poche superstiti di quei gloriosi anni, l'oggi riserva un presenta da museo (se gli è andata bene), ma ancor più probabile da ferrovecchio lasciato ad arrugginire all'imbrunire della sera su di un campo, senza neanche più traccia dell'autista!

"Sic Transit gloria mundi", con queste parole Berlusconi ha commentato la fine del suo amico Libico. La gloria che si riversa nel suo contrario, le stelle che diventano buie e chiuse nel fetore di una stalla, con questo stesso epitaffio sono ornate le tombe di molti illustri potenti, come a ricordare la caducità della condizione umana, ma allo stesso tempo a sottolineare che finché la fiamma è stata accesa ha arso di un fuoco imperioso e potente, ben al di la della piccola fiammella che accompagna l'uomo qualunque.

Io non godo nel vedere la morte di un criminale di guerra, ma ovviamente mi compiaccio del fatto che i suoi crimini, almeno grazie alla morte, non siano più reiterabili per suo pugno.
Non faccio neanche il gioco meschino di associare il tragico finale del Rais all'agognato finale di Sua Emittenza (senza guerra civile e per mezzo della potente arma della democrazia chiamata "penna"), l'associazione nasce solo sulla spinta di quella frase, che Berlusconi pronuncia ai media ma fa risuonare dentro la sua cassa cranica in maniera evidente: un modo di ricordare a se stesso la transitorietà del potere temporale e quanto, in ogni caso, la vita sia "a termine".

In quella frase c'è sempre la bellezza e il paradosso che accompagna ogni pensiero, anche il più ispirato alla nobiltà. In quella frase c'è la voglia di ricordare ai Potenti e al popolo di vivere una vita degna e di non aspirare alla felicità attraverso il mero esercizio del potere, essendo tutto costruito su fondamenta fragili, quelle del tempo che passa. 
Ma in quella frase si annida anche il possibile desiderio di bruciare tutto ciò che diventa combustibile, per scaldarsi e illuminare questo inevitabile passaggio terreno nella maniera più calda e lucente possibile, fregandosene di morale, di regole, di Diritto Naturale e di Giustizia. Il Potente che si droga del suo stesso potere, che si scalda le mani sul fuoco che egli stesso ha accesso, quelle mani che avvicinate al falò si immergono nel chiarore rosso e rendono meno possente il colore rosso del sangue che le solca.

Il finale del fuoco che arde è sempre quello della brace che cova sotto la cenere, non esiste un fuoco perenne (se non nelle viscere dell'Inferno per i credenti), ma chi rimane a guardare la cenere non è detto che si ritrovi a contemplare un mondo migliore, perchè basta muovere un poco la terra affinché ci si renda conto che è molto più facile riaccendere un fuoco da sotto la cenere che accenderlo dal niente.

Oggi non c'è più Gheddafi ma rimane il mondo che l'ha creato, domani non ci saranno più nemmeno uno di quei politici italiani che hanno condotto il Paese negl ultimi vent'anni, ma rimarrà l'Italia. No, l'unica certezza è la certezza del finale, ma mai delle sue conseguenze.




martedì 18 ottobre 2011

dentro o fuori, sperando in giorni migliori


Sono anni che sento ripetere alla Sinistra italiana la solita litania all'indomani di una sconfitta politica (e di occasioni negli ultimi vent'anni ce ne sono state tante),  ossia la 'colpa' è sempre da cercare da qualche altra parte ma mai dentro casa propria.
Faccio riferimento ad un piccolo ma significativo episodio politico recente, la conferma di Iorio a governatore della microregione del Molise. Bé, a poche ore dal capitombolo nelle urne, l'ex segretario democratico Franceschini si è lanciato nella mischia con una piroetta patetica, affermando che "per un pugno di voti in Molise vince il candidato di destra, inquisito, grazie ai voti di Grillo, tolti al centrosinistra". Stesso ritornello già sentito in occasione della sconfitta della Bresso in Piemonte.
La colpa è di chi toglie voti alla sinistra senza rendersi conto che chi toglie voti alla sinistra è proprio la classe dirigente DELLA SINISTRA stessa.

Il vicedirettore de "La Repubblica" coglie il segno e scrive che "C'è un dato politico generale, che si coglie anche dalla "sindrome molisana", con il quale la sinistra riformista deve fare i conti: la sua offerta politica non è sufficiente né a convincere gli arrabbiati di sinistra a votare Pd, né i delusi di destra a spostarsi da un polo all'altro. Il governo Berlusconi è una calamità devastante. Ma l'armata anti-berlusconiana non pare un'alternativa convincente."

Moretti nel 2002 affermò che con questi dirigenti la sinistra non avrebbe mai vinto. Quella profezia era vera solo in parte, perché di quella frase era sbagliato il complemento oggetto. Non erano e non sono 'questi dirigenti' che non faranno mai vincere gli eredi del PCI, ma la mentalità che sta dietro i capibastione e che è ben presente e viva in ogni angolo dei Partiti politici. Non è un problema di dirigenza, di vecchia guardia che non da spazio alle nuove leve, è un problema di reale ed effettiva incapacità a capire che con i 'bravi ragazzi' non si cavalcano le rivoluzioni sociali alle quali stiamo assistendo, ma le si subiscono, le si osservano dalla tribuna nella speranza che prima o poi il cavallo pazzo del capitalismo malato si stanchi e cominci a trotterellare verso le transenne.
Le persone che ho conosciuto in politica sono quasi tutte 'brave persone' ma io ero entrato dentro un partito non per incontrare persone oneste (l'onestà va data per scontata come ha detto Floris giorni fa), ma per incontrare l'origine di un cambiamento, l'innovazione che andasse oltre il nepotismo e il bon ton, l'assecondare il dirigente di turno e il non fare mai affrermazioni che potessero in qualche maniera disturbare i "capi".

Non si spara sull'azienda, ma non si può neanche sperare di cambiare il devastante distacco tra politica e società facendo semplicemente i 'bravi ragazzi'. Si finisce così a lasciare la politica solo agli indignati e si entra nel circo della politica organizzativa, Feste, Eventi, Convegni, Cene, Aperitivi, Pulmini, come se per stare tra la gente si debba dare enfasi al modo di starci.

Allora perché mai sono entrato in un partito? Perchè mi affascinava l'idea del partito nuovo, non nel nome ma nelle intenzioni. Perché ho sempre pensato che tra star fuori o dentro si abbiano più possibilità ad essere incisivi dentro. Perché ho sempre creduto e credo che organizzarsi sia comunque necessario alla proposizione per superare la contrapposizione.

E poi le cose non vanno sempre come si spera che vadano, e succede che un bel giorno, un giorno qualsiasi, un'amica ti faccia una domanda com questa:

ma io mi chiedo: come fare posto a chi vuole un nuovo modo di fare politica, se sistematicamente gli vengono "tagliate le gambe" e viene bollato come eversivo, e si lascia la strada libera ai soliti "figli di papà"? Se si considera il sistema ormai marcio, come cambiarlo da dentro? (c'è chi decide di starne "fuori" proprio per una mancanza di fiducia, come ritrovarla?)

Se avessi la risposta alla sua domanda (che da sempre è anche la Mia domanda), allora avrei davvero trovato la strada, poi la lunghezza e la tortuosità non mi farebbero certo paura.
Ma io non so rispoderle né rispondermi, so solo che stare dentro in maniera "funzionale" è solo un modo per perpetuare l'immobilismo, con qualche gentile concessione all'abbassamento dell'età media (quando decidono che deve capitare).
Io non passerò più nemmeno un minuto della mia vita "politica" ad assecondare meccanismi gattopardeschi, a tagliarmi la lingua, ad accettare il declino permanente.
Non so se starò più "dentro", ma se dovesse accadere non mi fermerò mai più in posizioni di galleggiamento, dirò quello che sentirò di dover dire, con le giuste maniere ma dritto fino alla meta. Se poi questo non dovesse essere sufficiente io un giorno mi siederò sulla banchina, in riva al fiume, con i piedi nudi penzolanti e i pensieri fermi, convinto di aver fatto tutto quello che mi era possibile fare per vedere quell'acqua scorrere controcorrente.... e poi berrò....

"sara' anche che il gioco si cambia da dentro
ma alla fine e' giocare che ti cambia dentro
sara' anche che spesso lontano dal centro
ognuno si scopre un nuovo talento

magari fuggire non e' la soluzione
magari fuggire e' una resurrezione
e' come sfidare il niente
stare qui

io non so se ritornare
quale vuoto sia peggiore
se avro' forza per trattare
e se il mio destino e' stare
fuori o dentro"
(N.F. Fuori o dentro)

sabato 15 ottobre 2011

Il Mondo di Indegni e Indignati


Oggi, in un mondo globalizzato diventa globale anche la protesta degli INDIGNATI.
Anche l'Italia ha i suoi Indignati, i suoi giovani ventenni e trentenni che "combattono" per le strade e per le piazze per far sapere all'opinione pubblica ed ai palazzi del Potere che non ci stanno più a sopportare politiche economiche e fiscali che mai e poi mai mettono in primo piano le esigenze di coloro che sono oggi le fondamenta della società sulla quale poggerà un domani più o meno decente.

Io non ho nulla contro il movimento nato in Spagna ed espatriato nel resto d'Europa. Si tratta di un movimento che sta assumendo dimensioni globali e che intende dar voce (come dicono i manifestanti), a quel 99% della popolazione che sta pagando una crisi che non ha provocato.

Ora però non posso nascondermi dietro un due aste; infatti non nego la mia lontana ammirazione per un vecchio della politica come Pietro Ingrao, e questo mi fa propendere per uno slogan che assomiglia molto di più ad un punto di partenza che ad un punto fermo: INDIGNARSI NON BASTA.
Ingrao sostiene quanto segue: «vedo prevalere una critica morale alla degenerazione dei partiti, alla corruzione e all’affarismo del ceto politico. Ne condivido le ragioni e l’asprezza. Ma l’indignazione non dà conto delle modificazioni sostanziali. La mera denuncia, in qualche modo, le occulta».
In pratica afferma che indignarsi è un tutt'uno con l'IMPEGNARSI, altrimenti si finisce per essere uomini con il megafono ma privi di cappa e spada, e il megafono dopo un po' rischia di diventare un fastidioso rumore di fondo che non si differenzia più dal rumore dei nemici. Il "vecio" ha una paura folle che il sentimento dell'indignazione si accoppi con quello ecumenico della speranza, con il serio rischio che l'uno renda inefficace l'altro se li si lascia in solitario, avulsi da una pratica politica e sociale che dia loro sostanza. L'indignazione non potrà mai fare le veci della politica semplicemente perché non sono sostantivi paritetici.

Certo, indignarsi è una conditio sine qua non per affermare che una generazione ha preso coscienza di sé e dei propri diritti, ma per l'appunto rimane una presa di coscienza e non certo di potere. Portare in Piazza draghi stanchi e cartelli fiammanti, tirare uova contro BankItalia e fare pernacchie al governo ed alla classe politica in generale è il cartellino giallo, l'ammonizione che gli arbitri del proprio destino mostrano agli arbitri del mondo, ma tirato fuori il cartellino poi occorre continuare a "giocare" una partita che ci costringe e ci costringerà ad uscire dai recinti delle battute su Facebook contro un ministro e dalle vecchie ma mai troppo nuove ubriacature di piazza. Occorre ricordare e giocare in prima persona, occorre smettere di chiedere ai politici il rinnovamento e farlo per conto proprio, senza prestare il capo ed il voto a polli di allevamento che di ruspante e innovativo non hanno nemmeno il becco.

Urlare che "Noi il debito non lo paghiamo" è giusto in linea di principio, ma guardando in faccia la realtà si scoprirebbe che un terzo di quel debito non è nelle tasche di ricchi banchieri, ma di cittadini e pensionati che hanno sottoscritto Bot e Cct pensando di essere amministrati da gente responsabile. Quel Noi assume cosi un valore grandissimo, e la frase dovrebbe poi concludersi con la richiesta di non pagare il debito come dovrebbero invece pagarlo evasori e corruttori, ladri e saltimbanchi politici privi di responsabilità legali per scelte amministrative sciagurate.
Si ai movimenti referendari, al "Se non ora quando", alle Libertà e Giustizia, ma manca la pagina del "come" (per rubare una battuta a Crozza), e quella pagina la si trova solo in gruppi, movimenti (o fatevene una ragione), nei partiti..... E se nessuno oggi ci rappresenta facciamocene una ragione, ma facciamone anche un partito....