giovedì 29 settembre 2011

Pazzo.....come un cavallo

In un tempo lontano e confuso, un ragazzo stava camminando per strada, con lo sguardo volto in avanti, ma più orientato a guardare la terra che passava sotto i suoi piedi piuttosto che prodigarsi in sforzi visivi per rendere nitido l'orizzonte.
Quella camminata  claudicante e barcollante era una caratteristica del ragazzo stesso, un modo di procedere che era nato con lui, cresciuto con lui, consolidato nei suoi passi e nella sua mente, nei suoi occhi e nelle sue azioni, e gli faceva paura.

Non capiva perché il mondo che girava attorno procedesse ad andatura regolare e a lui toccava invece inciampare sui suoi passi e molto più spesso sui suoi pensieri. Invidiava gli sguardi sereni e spensierati dei suoi amici, i sorrisi che incorniciavano la naturalezza di visi che per lui erano miraggi, le azioni leggere e automatiche di ragazzi e ragazze che condividevano con lui solo il calendario che passava ma non di certo il peso di quei giorni che ogni giorno diventavano passato.

Quel suo passo acquistò il greve peso dello smarrimento, a tal punto da farlo salire su un cavallo, un cavallo indomabile e furente, incomprensibile e impossibile da sellare. Quel cavallo era la sua testa, era la somma dei suoi pensieri, delle sue angosce e della sua incapacità a conoscere qualcosa che nessuno gli aveva insegnato. Quel cavallo era parte di lui e lui non lo voleva.

Questa è la storia di tutti coloro che un giorno scoprono che è difficile governare i propri pensieri, la propria testa, una storia comune ma lontana dal diventare comune argomento di dialogo.  capita che la mente a volte parli a qualcuno senza che nessuno gli abbia dato il dizionario per conoscere una lingua ignota. Allora si scambia quel linguaggio e quelle parole per malattia, ciò che non si conosce diventa subito ammantato di nero e porta quasi sempre nel terreno dell'ansia e della paranoia, ma questo non è il problema.

Il vero problema è che non si è ancora sulla strada per accettare che il proprio modo di essere, che all'inizio ti fa star male, non è una malattia, ma una parte di te con la quale devi imparare a convivere e a volergli bene. Per far questo a volte occorre che ci si faccia dare una mano da chi ha la possibilità di insegnarti come fare. Se non si sa guidare un auto si va a Scuola Guida, se non si sa guidare la testa si impara a farlo e non si subisce passivamente una parte di noi come se fossimo solo un insieme di acqua e chimica. Ed imparare è molto stimolante, bello e utile nel corso del tempo-
Il viaggio è spesso lungo, ma ciò che potrebbe renderlo senza fine è l'opporsi a questo bellissimo dono, perché è un dono. Il ragazzo non è claudicante, sono gli altri che non sanno camminare come lui.
Se ci mettessero in mano della glicerina si avrebbe la facoltà di decidere se usarla assieme alla nitro e far saltare tutto in aria o adoperarla per medicinali che salvano la vita, il problema vero ce l'hanno coloro che non sanno nemmeno cosa sia la glicerina.
Io la vorrei tutta la vita, perché ti costringe a crescere, ad imparare a guardarti dentro, ti obbliga a guardare la paura e a imparare a non averne e questo ti da l'opportunità di essere migliore ogni giorno che passa. All'inizio è vero, è un cavallo indomabile, ma poi lo si accarezza, gli si sussurra e quel cavallo pazzo ti porta in praterie che nessuno potra mai vedere con le sue gambe.
La suggestione è un effetto collaterale, da governare con il tempo, ma non è il fuoco della questione. A quel fuoco ci si arriva e lo si può fare soltanto con la propria volontà, ma ci si arriva. Ho visto e conosciuto persone che quel cavallo l'hanno incontrato in giovane età, convinte all'inizio di stare in un girotondo, poi con la propria forza si riesce a capire che sei tu a girare in tondo e non ti obbliga nessuno a farlo, né la saratonina del tuo cervello né le tue paure.


Allora appare chiaro che la serenità degli altri è quello che tu percepisci. L'assenza di pensieri talvolta è proprio assenza punto e basta. Ci si chiederà allora se sia meglio pensare ed essere tormentati piuttosto che non pensare a nulla, ma è la vecchia teoria dello "scemo del villaggio"... si è davvero sicuri che si perdono cose belle pensando troppo e non se le perdono invece coloro che non sanno andare negli abissi? Solo chi sa cos'è l'abisso può provare la gioia immensa dell'apice. Per toccare la felicità devi essere in grado di avere occhi che gli altri non hanno.
Si diventa cosi fratelli maggiore di se stessi, la paura di "studiarsi" si dissolve e diventa chiaro che l'unico modo per crescere nella vita (non solo di età) è parlare con noi e raccontarci che Godot lo facciamo aspettare a qualcun'altro, noi ce lo andiamo a prendere, perché se la felicità è del regno dei cieli la tranquillità è una conquista terrena e non un evento metereologico. Imparare a volersi bene diventa stupefacente, è una droga pulita che ti rimette al mondo. Per far tutto questo non esistono manuali con formule magiche o tonache talari che facilitano il contatto con l'Essenza, serve solo avere voglia di mettersi buone scarpe, continuare nel proprio passo claudicante e barcollante e con tenacia e naturalezza distogliere lo sguardo dai propri piedi ed alzarlo verso l'orizzonte, perché proprio a quello serve l'orizzonte, a camminarci incontro.

il lato oscuro della luna di silicio (FB)



Lo so ancor prima di arrivare a digitare l’ultima parola di questo post, il rischio di essere antipatico sarà molto più che un rischio, riga dopo riga si trasformerà in una certezza.
Ma d’altronde io non sono qua per farmi piacere, ma per puro piacere. Scrivere su questo blog è terapeutico: c’è chi si dedica allo yoga, c’è chi fa training autogeno, c’è chi canta (magari anche solo sotto la doccia), c’è chi si diverte a leggere blog, anche dell’ultimo arrivato in questo mondo universo chiamato rete, e c’è chi scrive, o meglio, prova a farlo.
Internet, a me sembra che ormai abbia dismesso la sua originaria funzione di mezzo di comunicazione (come lo è una tv, la radio, il telefono), e sia diventato esso stesso mezzo per mezzi di comunicazione un agglomerato dove dentro ci sta tutto, dalla tv stessa alla web radio. Non solo e non più rete web, ma vera e propria rete di persone e di contatti.
In tutto questo ha giocato un ruolo fondamentale Facebook, il social network per antonomasia, la piazza virtuale dove quasi un miliardo di persone decide di abbandonare un pezzo della propria privacy  e di mettersi a nudo…… (E qui comincia il declino)…… Ma no che non ci si mette a nudo, ci si veste di mille abiti, si mettono maschere su maschere, si recitano copioni scritti involontariamente nella nostra mente, e lo si fa spesso con naturalezza.
Su FB non ci siamo noi, ma una parte di noi, quella che vogliamo che appaia, c’è la proiezione virtuale di quello che vorremmo trasmettere agli altri riguardo la nostra persona.
Belle foto, profili in chiaroscuro, citazioni dotte e ricercate, canzoni bellissime, richiami ad articoli di giornale, semplici flash di frasi gettate li per attirare l’attenzione. Su FB c’è la nostra voglia di entrare in TV, perché FB è il figlio non riconosciuto della televisione. Ognuno ha la sua telecamera, ognuno può puntarsi addosso l’occhio del grande fratello, e ognuno decide di andare in piazza vestito con quel che più gli piace. Su FB non ci sono urli, pianti di disperazione, non si vedono foto che ci ritraggono al minimo della nostra forma, non ci sono orrori e talvolta solo errori (e parlo di ortografia). Su FB nessuna debolezza e tanta apparenza, con il rischio di non dare mai luce al lato oscuro della luna di silicio.
La mia intenzione non è quella di demonizzare il social network né coloro che ci stanno dentro (e io sono uno di questi). Esso è indubbiamente un utile mezzo di comunicazione, un sostitutivo della mail, un canale per far conoscere e amplificare una parte di noi che abbiamo comunque dentro, non c’è finzione, ma semplicemente mancanza di completezza. C’è tanto cazzeggio, è un bar con un bancone infinito nel quale l’unico alcol che servono è l’inebriante sensazione di essere un po’ meglio di ciò che si è.
Una volta una persona mi ha raccontato di non aver mai mentito, al massimo si è auto accusata di essersi limitata ad omettere: ecco su FB non si mente ma si mette qualcosa per omettere tanto altro, né più né meno rispetto a ciò che facciamo tutti i giorni con il mondo reale, ma con una platea che può essere molto più ampia e con uno spazio tempo ridotto al minimo. Su FB si cerca di cogliere l’attimo dettato dall’agenda mondiale, si getta la canna da pesca con attaccato all’amo l’esca di un aforisma, si aspetta e ci si aspetta  di tirar su un desiderato consenso fatto di “mi piace” e di commenti.
Pensiamoci, se nessun “mi piace” e nessun intervento ornassero la nostra bacheca (che altri non è che un eufemismo di “vetrina”), pian piano si correrebbe il serio rischio di smettere di pubblicare. Il piacere di farlo fine a se stesso si affievolirebbe perché non irrigato dal sempre più necessario bagno di folla al quale FB ci abitua e ci rende traguardo.
Ci si pesa a suon di “amici”, ci si vanta di vacanze da sogno e di serate da sballo, ci si rincorre per arrivare prima al pianto di coccodrillo per una persona famosa scomparsa, senza nemmeno ammettere di non averla mai sentita nominare un attimo prima del suo trapasso.
E allora mi domando, perché sto su FB? Perché è come decidere di possedere un cellulare, FB è ormai un mezzo e come tutti gli strumenti non è bello o brutto o giusto o sbagliato a prescindere, è l’uso che se ne fa che lo rende inutile e stupido o utile ed interessante, e ammettiamo pure, (come succede per la TV), oggi su FB è più facile trovare carta da parati che quadri d’autore.
Il Blog invece sta a FB come una casa sta ad una piazza. La casa si può affacciare sulla piazza stessa, ma se vuoi respirarla, capirla e viverla hai bisogno di entrarci, ed io ho fatto un mutuo con soldi virtuali e tempo reale per acquistare una casa blog con vista su FB Plaza e passarci un po’ di tempo per rilassarmi… come mi trovo?: “mi piace”!

lunedì 26 settembre 2011

Con....dono Morale

“In Italia bisogna purificare l’aria ammorbata dai comportamenti licenziosi”, “la questione morale non è un’invenzione mediatica”, “la piovra della corruzione va combattuta al pari dei comitati d’affari”: parole nette e inequivocabili quelle pronunciate dal cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione del consiglio permanente dei vescovi.

Ma guarda cosa sono costretto a fare: vestire i panni dell'avvocato delle cause perse (e questa non è una novità), e andare controcorrente (e anche questa non è una novità). 
Le parole del capo dei Vescovi, il card. Bagnasco, sono state nette, chiare, di duro attacco al Premier Silvio Berlusconi (anche se non viene mai citato in maniera esplicita per ragioni di bon ton). I giornali di sinistra ne danno ampio risalto; le prime pagine del "Fatto quotidiano" e di "Repubblica" sembrano avere come sottotitoli ombra un liberatorio "Era ora". Berlusconi deriso, Berlusconi immondo, Berlusconi corruttore, Berlusconi imputato principale nel nuovo tribunale dell'inquisizione sulla questione morale.

Sia chiaro, io mi ritrovo in molte parole pronunciate dal cardinale, ma questi miei pensieri non diventano più giusti perché pronunciati dalla Chiesa Cattolica. Non dimentico i silenzi della stessa Chiesa durante decine di situazioni dove tutto ciò che vediamo oggi era già chiaro ed evidente, le leggi ad personam, la depenalizzazione del falso in bilancio, gli amici condannati per mafia con sentenza definitiva, i tanti processi prescritti, i condoni fiscali, i condoni edilizi, la politica per gli immigrati, le sante alleanze con la Lega Nord e il suo neopaganesimo... Io non dimentico. Parlare oggi, alla fine della parabola berlusconiana. è come colpire alle spalle un nemico in ginocchio. La morale quando la si vuol sollevare a questione non dovrebbe prevedere atteggiamenti intimidatori di fronte a chi detiene il potere ed è all'apice della sua carriera politica. Silvio berlusconi ha varcato le mura della città del Vaticano in maniera ufficiale appena sette mesi fa, in occasione dell'incontro bilaterale Italia Santa Sede per l'anniversario dei Patti Lateranensi e del Concordato, ben dopo il Rubygate e l'affondo della sua ex moglie Veronica Lario.

E non dimentico le crociate ecclesiastiche contro il referendum sulla legge 4o (quello della procreazione assistita), non dimentico gli altari trasformati in tribune, non dimentico la lotta contro Beppino Englaro, disegnato come un debole uomo incapace di amare quel che restava di sua figlia. Non dimentico la negazione dei funerali a PierGiorgio Welby e le cerimonie religiose per mafiosi trattati come santi e arricchiti dal popolo con il "titolo" di Don (come a dire "...nel nome del Padre, del Padrino e dello Spirito Santo").

Non mi scordo l'elenco dei nuovi peccati capitali, dove al primo posto svettano quelle abominevoli coppie che ricorrono alla fecondazione assistita, ancor prima di coloro che inquinano l'ambiente e fanno uso di droghe.

Non dimentico e non mi scandalizzo, perché per me le posizioni di Santa Romana Chiesa sono legittime, non lo è invece il richiamo ad una declinazione legislativa per quelle che sono esclusivamente questioni morali. La libera Chiesa in Libero Stato è una formula universale vera soltanto a metà. La Chiesa non ha mai smesso di cercare di rendere la giustizia un po' meno divina e un po' più terrena. 
Libertà di tribuna ad una religione che ha caratterizzato anche la nostra crescita culturale, ma la sfera della laicità dello Stato per me è più sacra delle mura del Varticano.

E' per questi motivi che ritengo legittime le opinioni morali del Cardinal Bagnasco, ma non gli do assolutamente nessun peso. Non posso renderle arma di attacco politico solo quando conviene alla mia causa. Bagnasco parla alla sua comunità di fedeli e i media contribuisco a regalargli una platea sociale smisurata.

Ora non resisto alla mia deriva morale, voglio provare l'ebbrezza di salire su un altare, anzi no, preferisco un palco (è decisamente più laico). Rubo parole tronfie di retorica ma molto vicine al ragazzo che ero allora (1994) e che forse non ho mai smesso di essere:
"Io credo che a questo mondo
esista solo una grande chiesa
che passa da CHE GUEVARA
e arriva fino a MADRE TERESA
passando da MALCOLM X attraverso
GANDHI e SAN PATRIGNANO
Arriva da un prete in periferia
che va avanti nonostante il Vaticano."

Con tutto il rispetto di chi crede in una sola Chiesa, Santa, Cattolica e Apostolica... in fondo ci credo anch'io, un po' come Lucio Dalla in Piazza Grande, a modo mio.

venerdì 23 settembre 2011

Lo spaventapasseri e la Cornacchia

Un Milanese salvato dalla Lega Nord non dovrebbe di per se far notizia. Un deputato salvato dalla Casta purtroppo non fa più notizia da tanto tempo (si limita a creare indignazione). Un Parlamento che si attacca come una sanguisuga alla propria posizione, senza tener conto che fuori è cambiato tutto rispetto alle elezioni del 2008 non è una novità sulla quale spendere parole e richieste, d'altronde si chiama abitudine quel processo mediante il quale un comportamento si ripete in maniera costante, annacquando le reazioni circostanti alle conseguenze del comportamento abitudinario.

Siamo quindi stati abituati alla rassegnazione, condita di rabbia ma affogata di impotenza, Siamo diventati sempre più spesso incapaci di sussultare di sdegno di fronte alle ingiustizie che ci piovono sopra la testa, e limitiamo la nostra contrarietà a parole che si perdono assieme ai fondi del caffé che abbiamo appena consumato.

I nostri occhi si sgranano e le guance assumono quel rossore tipico della rabbia quando vediamo i "potenti" che se la cantano e se la suonano, quando i politici si perpetuano all'infinito, quando le giovani leve che dovrebbero diventare la nuova classe dirigente hanno si scarpe nuove ma portano in testa cappelli vecchi e consunti che qualcuno ha appoggiato loro sopra il capo (ma che più spesso sono stati loro stessi a richiedere tendendo la mano in segno di grazia).

Ora ho ben chiaro che la direzione del cambiamento non può che passare attraverso  la via dell'indignazione, ma per percorrere a testa alta quella via bisogna realmente assumersi la responsabilità di spogliarsi dalle mille caste a cui apparteniamo. L'Italia è una società basata sulle Caste ben più della lontana India. Non è possibile toccare nulla in questo Paese museo, non si toccano le pensioni, non si toccano gli ordini professionali, non si toccano le rendite di posizione, non si toccano gli scatti di anzianità, non si tocca la mancanza di progressione per merito, non si tocca il proprio orto, si è tutti spaventapasseri senza rendersi conto che qualche volte ci vestiamo da cornacchie.

Solo allora la sana indignazione sarà un'arma da estrarre dal fodero, accompagnata dalla propositività delle azioni che assume ben più forza e vigore dello slogan urlato al cielo.

Se il Parlamento salva un deputato dall'arresto, rendendolo più uguale degli altri di fronte alle legge, occorre ricordarsi nel momento di esercitare il proprio diritto di voto. Se la Regione Marche dice di voler rimodulare i ticket sanitari a seconda del reddito e poi nei fatti non lo fa (al contrario della vicina Emilia Romagna), occorre ricordarsi. Se non si trova nessuna convinzione nello scegliere l'alternativa, occorre diventarla in prima persona o al limite non sceglierla, per non assumersi concorsi di colpa.

L'indignazione ha solo una sorella che può percorrere con lei la strada che porta ad un Paese veramente diverso da quello di oggi, e non si chiama speranza (quella lasciamola alla Chiesa), ma si chiama Coerenza. Indignazione e Coerenza, le uniche due figlie naturali di un Uomo Nuovo.

Allora non si avrà più spazio per signori in cravatta verde che appendono cappi a Montecitorio e dopo qualche anno dicono No ad una richiesta d'arresto per un deputato, né a saltimbanchi che professano una diversità morale e poi non si accorgono di avere mille conflitti d'interesse in rivoli di società partecipate e baracconi statali, parastatali e affini.

Ora, coerentemente con quanto scritto, ho deciso di andare ad annaffiare il mio orto..... quello vero!

mercoledì 21 settembre 2011

i migliori Danni della nostra vita

C'era una volta, o forse erano due, o tre, o quattro, o magari nessuna, o perché no, centomila!

Centomila, come le occasioni che si sprecano per dimostrare a se stessi di poter essere una persona migliore; centomila, come le situazioni che si perdono per dimostrare agli altri di essere una persona migliore; centomila, come le volte in un giorno che il nostro cuore batte ricordandoci di essere vivi per "miracolo"; centomila, come gli occhi che si voltarono a guardare il cielo, aspettando il momento in cui sarebbero arrivati "loro"; centomila come il numero di telefonate inctercettate tra il nostro premier e il signore che gli rimediava la merce, e mi batte una volta di meno il cuore sapendo che per merce si intendono le donne (preferivo un premier tossicodipendente che ninfomane); centomila come le vecchie mila lire che appena dieci anni fa ci facevano sentire ricchi, consapevoli che non sarebbero finite dietro a mille spese che non riusciamo più a coprire con la corta coperta dell'euro; centomila, come i momenti in cui i nostri genitori ci hanno fatto capire che tutto si farebbe per i propri figli; centomila, come i momenti in cui si sarebbe potuto dire grazie ai nostri genitori per quello che hanno fatto per noi; centomila, come le cose che non rifarei se solo ne avessi l'occasione; centomila, come i secondi che segnano momenti di felicità e che si vorrebbero far diventare minuti, ore e giorni infiniti, ma purtroppo ciò che finisce è solo il pensiero di rendere la felicità "per sempre". Centomila, come le volte che sbattono le palpebre degli occhi della persona che ami, chiudendo dietro di sè l'unico sguardo che ti ha fatto sentire "centomila", talvolta "nessuno", e quasi sempre "uno".

Centomila, come gli anni che dovranno passare prima che qualcuno dall'aldilà si ricordi di noi e si prenda la briga di venirci a salvare, dato che alla fine la storia ha dimostrato che non sia proprio convenente farlo, magari si finisce per la seconda volta appesi ad una Croce.

Centomila, ma molto spesso una, come la chance che si vorrebbe riavere per poter compiere una scelta diversa al bivio della vita che non ripassa mai più.

Non centomila, ma 26 anni, 6 mesi e dieci giorni, come il tempo che ci ho messo a dire a mio padre "avevi ragione tu, scusa per i grattacapi che ti ho dato".

Certo, i migliori anni della nostra vita ci auguriamo che siano sempre di fronte a noi, abbracciando quel pensiero positivo che è l'unico compagno possibile per una età adulta serena e per una vecchiaia saggia. La speranza è invece che siano definitivamente alle nostre spalle i migliori Danni della nostra vita, quegli inevitabili errori che si sono sposati alle cose giuste che talvolta ci è capitato di fare e che ci hanno resi oggi l'uomo che siamo..... perché spesso capita che l'errore non si capisce prima di commetterlo.

Non serve una lunga vita per comprendere che ogni cosa si potrebbe far meglio, ma spesso serve a capire che la perfezione non esiste, esiste invece la consapevolezza di accettare che l'uomo non è Uno, e che la realtà non è oggettiva. Si passa dal considerarsi unico per tutti (Uno) a concepirsi come nullità (Nessuno), fino a prendere atto che esistono diversi Noi man mano che costruiamo rapporti sociali con gli altri (Centomila).

Esiste la fame di vita, e se si rimane troppo spesso a digiuno ci si prende inconsapevolemente gioco di coloro che non hanno più fame perchè non hanno più vita. Basta, esco per strada e cerco qualcuno per raccontargli una storia che comincia cosi: "C'era una volta, o forse erano due, o tre, o quattro, o magari nessuna, o perché no, centomila!"

martedì 20 settembre 2011

i (101) Programmi riprenderanno il più presto possibile

"Probabilmente vedremo due computer su ogni scrivania prima ancora di avere due automobili in ogni garage"

Questa frase non è stata scritta ai giorni nostri ma neanche alla fine degli anni '70 o nei primi anni '80. Questa frase è apparsa sulle colonne dell'edizione serale del New York Journal nel lontano 1965, e dietro quella profezia non si nascondeva la figura di Steve Jobs né quella del suo coetaneo Bill Gates (entrambi ancora poco più che bambini di dieci anni all'epoca); quelle parole si riferivano ad una macchina tanto rivoluzionaria quanto sconosciuta alla maggior parte di chi oggi usa quotidianamente un personal computer, la Programma 101, prototipo vero e proprio del primo PC realizzato da un italiano visionario e riservato, Pier Giorgio Perotto, assecondato da un'altro Italiano altrettanto visionario e illuminato e maggiormente noto ai più attempati, Roberto Olivetti.

Sul perché la Storia non abbia consegnato a Perotto, Olivetti e la loro P101 il giusto posto nel memoriale delle invenzioni più importanti del XX secolo si possono fare molte ipotesi: la mancata capacità finanziaria di una piccola azienda, troppo piccola per sfidare la ragione e abbracciare l'utopia della rivoluzione informatica, la scarsa propensione degli italiani (pre Silvio Berlusconi) a "sapersi vendere", la mancata dose di fortuna che accompagna da sempre ogni idea capace di uscire dalla testa del suo creatore e di entrare nel cuore della gente.

Tante ipotesi e una sola certezza: senza Olivetti e senza Perotto i tempi che ci hanno avvicinato alla rivoluzione digitale sarebbero stati più lunghi.

Questo post non vuol tingersi di nostalgia e non mira a raccontare di come eravamo belli e pionieri, con le mani in tasca e il sorriso sul volto, capaci di pensare al futuro semplicemente concentrandosi sul presente, ma tant'è che non sarò certo io a fermare le mie mani e la loro voglia di dar forma e sostanza ai miei pensieri.

La storia della P101 è la storia di un Paese che ha saputo arrivare prima degli altri su molti campi, che ha saputo vivere e far vivere del proprio genio, ma che non ha poi colto la vertiginosa velocità con la quale si è avvicinata la frontiera della società globalizzata, dove sempre più spesso occorre saper stare sul mercato ancor prima di rivoluzionarlo.

Ho sempre coltivato il desiderio di guardarmi alle spalle, è una deformazione personale che mi ha accompagnato negli anni del liceo e ha preso definitivamente possesso di me ai tempi dell'Università. Adoro la Storia e quello che ha da raccontarci, le terribili pagine di sofferenze che hanno contraddistinto ogni popolo, e le rassicuranti pagine che ancora oggi ci fanno dire che rialzarsi è sempre possibile.
L'elogio della Storia ha la sua massima aspirazione nel voler comprendere il Mondo di oggi attraverso gli avvenimenti di ieri. Il tutto poggia sulla convinzione che la Storia non è destinata a tingersi di toni seppia e a raccontarci con una fotografia di parole un Mondo che non c'è più. In quelle pagine, in quelle righe, nei documenti polverosi degli archivi e nei libri di cui sono stipate le nostre biblioteche non c'è il nostro passato, ma il nostro futuro. Solo comprendendo ciò che eravamo potremmo sperare di metterci alle spalle questo medioevo contemporaneo dove il resto del Mondo ci guarda con sarcasmo e ironia.

Per far questo non servono nuovi Perotto, non serve scomodare la pila di Alessandro Volta o la radio di Marconi, il telefono di Meucci o il cannocchiale di Galileo, la vera invenzione che potremmo "scoprire" in maniera collettiva è quella di essere un popolo che ha ancora tanto da dare e raccontare, e per farlo non deve per forza rivolgersi alla Storia, forse basterebbe solo conoscerla.

Cultura e Formazione sono investimenti che non potranno mai essere declassati alla voce "spese". Solo la miopia di governanti ragionieri può capitalizzare al ribasso una caratteristica intrinseca del nostro essere italiani, nata prima ancora della nostra giovane Italia.

Lucio Dalla cantava nel '70 che "l'impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale", e io pazientemente e a braccia conserte aspetto che torni la normalità, perché se mai mi accorgessi che tutto questo non è destinato a finire, beh, allora mi ricorderei di essere, ancor prima di Italiano, cittadino del Mondo. Magari avrei piacere di farmi un viaggio negli Stati Uniti d'America per incontrare un'altro italiano che a suo tempo decise che il futuro se lo sarebbe andato a cercare oltre Oceano: Federico Faggin. Chi è? Semplicemente l'inventore del microprocessore, un genio, ma pur sempre italiano, non chiedetegli di sapersi vendere. Da noi lo sanno fare solo le scatole vuote.

lunedì 19 settembre 2011

La sottile linea rossa (di vergogna)

Ci si frequenta per mesi, per anni, per circostanze che sono figlie di scelte che non prevedono scelte nelle conseguenze. Si diventa conoscenti perché si ha la sorte di condividere lo stesso lavoro, o magari si diventa amici di etichetta perché si è deciso di spendere il proprio tempo libero all'interno di una stessa associazione... talvolta si diventa Compagni senza mai essere in realtà nemmeno complici.
Ci si trova a condividere la propria vita con qualcuno e di conseguenza a diventare qualcuno per tante altre persone, con le quali forse mai avresti passato un'ora della reciproca vita di entrambi.
Gli incontri e gli inevitabili scontri fanno parte della continua interazione che ci rende esseri sociali ancor prima forse di esseri umani.

Ho imparato che ci sono vari modi per relazionarsi con una persona con la quale "sei costretto" a farlo. Mi si potrà ribadire che nessuno ci costringe a far nulla, ma in realtà il buon senso e l'intelligenza ci spingono ad avere sempre rispetto per chi si ha di fronte.

Ho molti conoscenti e pochi amici, e tra i tanti conoscenti qualcuno si sceglie volontariamente di perdere, cosi come credo che il ragionamento possa valere in maniera inversa per tanti altri nei miei confronti. Quello che invece vorrei perdere per sempre è l'abitudine di vivere un rapporto in modo automatica, ossia chiedere ciò che si dovrebbe chiedere in determinate occasioni, fingere di provare gioia o stupore quando si prova sopportazione, salutare in modo enfatico qualcuno di cui non ti ricordavi nemmeno l'esistenza, accondiscendere a persone con un ruolo sociale importante come se fossero più persone degli altri.

Non dico che per non essere ipocriti occorre sputare sentenze e pronunciare ogni cosa ci passa per il cervello, ma la sottile linea rossa (di vergogna), che separa l'ipocrisia dall'essere diretti (senza porsi nessun dubbio su quale direzione si prende), è il vero filo dove l'equilibrista che sta in me cerca sempre di percorrere, spinto da folate di vento che mi portano talvolta ad avere svarioni verso il campo dei farisei e talvolta verso quello dei maleducati.
Sto cercando di imparare che mai e poi mai il mio sacrosanto diritto di avere un'opinione sulle persone potrà tramutarsi in alcun modo su un giudizio inappellabile, e mai può scivolare nell'arroganza che ti inebria quando si pensa di "essere dalla parte della ragione".
La vera ragione ha una sola parte, che non è quella che ci rende ipocriti né quella che ci rende antipatici, ma quella che ci innalza alla dimensione della saggezza.

Non si scelgono fratelli e sorelle, madri e padri, suocere o colleghi di lavoro, spesso non si scelgono compagni di viaggio e talvolta ci si imbatte in partner occasionali di qualunque fase della nostra vita. Ciò che in realtà è sempre possibile scegliere è essere se stessi, senza per forza dover recitare la parte che ci spetta da un copione scritto dalle circostanze ( e senza dover essere rivoluzionari per forza).

Si scelgono gli amici, quelli veri e non quelli su facebook, si scelgono mogli e mariti e si sceglie se credere in qualcuno che ci fa sentire meglio al Mondo.

Tutto il resto si accetta, con la convinzione che alla lunga valga molto più un atteggiamento onesto rispetto a decine di saluti o non saluti figli più del nostra origine animale che della nostra evoluzione sociale.

domenica 18 settembre 2011

Le dimissioni non si chiedono, si danno

Ora che io non sia particolarmente tenero con il nostro Premier e che non condivida nulla di ciò che ha fatto a livello politico e personale negli ultimi 17 anni non è un segreto. 
Non faccio quindi mistero (ma nemmeno vanto) del fatto che il mio voto non ha mai contribuito a renderlo il Primo Ministro con il maggior numero di giorni di governo nella storia di tutta le Repubblica Italiana.
Che io abbia un'idea della senilità e dell'amore decisamente agli antipodi con Mister B. conta molto per me e per chi mi sta vicino, ma decisamente nulla per il resto del Mondo.
Va da se quindi che non mi senta di idolatrare chi riesce a "farsene otto in una sera" rammaricandosi per aver lasciato fuori dal pallottoliere altre quattro povere ragazze sfortunate, questa è una mia scelta dettata da tanti fattori che hanno messo insieme la mia personale visione della vita.
Viste le premesse rivendico come un valore il fatto di essere perciò distante dalla concezione di "bellezza" messa in vendita come se fosse un qualsiasi oggetto prezioso e quindi acquisti di per se un prezzo.
Infine mai spererei per mia figlia un avvenire fatto di lustrini e paillettes, e magari di "favori" in cambio di occasioni. Credo che questo appartenga a tutti i padri di famiglia, almeno quelli che mi è capitato di conoscere (e ringrazio la sorte per non avermi fatto incontrare gli altri).

Ma detto questo e omesso tanto altro non posso fare a meno di spezzare una lancia in favore del sig.Silvio Berlusconi, e non ci metto né sarcasmo né retorica in questa frase, tant'è che la lancia alla quale mi riferisco ha un valore puramente astratto.
Già, perché mi sembra di ricordare che l'Italia sia ancora una Democrazia, una Democrazia Parlamentare, dove la Sovranità appartiene al Popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1) e dove il Presidente della Repubblica, una volta sciolte le Camere dopo aver sentito i loro presidenti (art. 88), DEVE accertare e verificare se sussistono le condizioni per una diversa maggioranza e un altro Governo.

Dico questo perché non ne posso veramente più di sentire come un disco rotto la parola "dimettiti" usata ogni secondo da parte dell'opposizione nei confronti del leader del centrodestra. Chiedere le dimissioni è come riempire un palloncino d'aria e poi legarlo. Lasciato a se stesso lo ritrovi dopo qualche giorno raggrinzito e fermo a terra, senza neanche più lo slancio del volo; inutile, come un pallone sgonfio.

Volenti (o nolenti come nel mio caso). questo signore è stato scelto dagli italiani in elezioni libere, ed è un fatto accaduto tre volte su cinque negli ultimi 17 anni. Le altre due elezioni, che hanno visto l'affermazione di Romano Prodi, nascono quasi più da incidenti di percorso della maggioranza attuale (mancata alleanza con la Lega nel 1996 e un affermazione 24.000 voti su 38 milioni alla Camera ma con una consistente minoranza di circa 500.000 voti in meno al Senato).
Io ero tra i 24.000 del 2006 e sono sempre stato dalla stessa parte, ma nessuno riuscirà mai a convincermi che non valga la pena mantenere il rispetto per coloro che l''hanno pensata in maniera opposta dalla mia in ogni tornata elettorale.
La richiesta di dimissioni urlata contro il cielo è l'ennesimo esempio del mancato rispetto delle Istituzioni, è mettersi allo stesso piano (e non alla stessa camera da letto ovviamente), di chi ha sempre visto complotti nelle segrete stanza della magistratura.
Sarà che ho sempre nutrito una certa antipatia di fronte ai giocatori che, nel subire un presunto fallo, ancor prima di rialzarsi hanno lo slancio di rivolgersi all'arbitro chiedendo l'ammonizione per l'avversario.

Qui in campo ci sono tre arbirti, il Parlamento, il Presidente Napolitano e il popolo. Se il primo decreta ufficialmente la fine della maggioranza il secondo scioglie le Camere e si rivolge al terzo (nel caso non si presenti un'altra maggioranza).
Cosi funziona secondo la nostra Costituzione, giustamente invocata e difesa dagli 'urlatori' in molte altre occasioni.

Per me è un principio di coerenza, le dimissioni non si chiedono, ma si danno. Se mai un elettore di centro destra vorrà dimissionare l'esperienza politica di Berlusconi lo potrà fare, o perché deluso dalla fiducia mal riposta, o magari convinto da un'alternativa più valida.

Dimenticavo, c'è un'ulteriore possibilità prevista per coloro che non accettano le regole del gioco, cambiarle, magari con la tanto attesa rivoluzione, che oggi non si farà, domani forse, ma dopodamani sicuramente (GG). In passato si è visto che chi ci ha provato spesso ha finito per provocare più danni che benefici.

La vera rivoluzione è vivere ogni giorno un giorno diverso da quello precedente, spianando con la forza di uno e l'utopia di tanti l'inarrestabile declino di questo Paese.
Per farlo non serve urlare, ma dare l'esempio e sussurrarlo con gli occhi, poi toccherà agli altri decidere che prima o poi gli altri siamo noi.

venerdì 16 settembre 2011

...quasi come per ricordarsi di ricordare.

Spesso fatichiamo a staccarci da oggetti che hanno in qualche modo accompagnato una parte della nostra vita; semplici indumenti o più complessi strumenti che non si sa per quale motivo, supponiamo e speriamo di riutilizzare un giorno o l'altro. E' forse una maniera inconscia di non 'dimenticare' il nostro passato, un modo pratico di 'fare una fotografia' a ciò che un tempo ci ha accompagnato in giornate lasciate alle nostre spalle.

E cosi i nostri garage, le nostre taverne, i nostri soffitti, diventano una sorta di museo di noi stessi, senza che ci prenda mai la voglia di dare spazio a ciò che occorrerebbe veramente.
E' la stessa cosa che succede agli armadi, stipati di vestiti che non metteremo mai più, o ai nostri congelatori, comprati più grandi per contenere un maggior numero di alimenti pronti all'uso e sempre più spesso veri o propri archivi di pasti che mai consumeremo.

No, questa non è la solita critica al consumismo, ma avrebbe la pretesa di essere invece uno spunto per capire le scelte che facciamo nel momento in cui mettiamo zavorra ai nostri ricordi (e quello che maldestramente lasciamo per sempre destinato all'oblio dei non ricordi).

A volte può capitare di fare un salto nel tempo e cominciare a girare tra le pagine dei primi diari che abbiamo conservato, o annusare l'odore dei primi libri che ci è capitato di sfogliare, a volte può accadere che sia una radio a versarci questo distillato di nostalgia passando una canzone che ci riporti la mente a quel che eravamo.
E come per magia mi appare la scritta che una mia amica di un tempo aveva impresso in una parete della propria casa, prendendo a prestito la magnifica penna di Gabriel Garcia Marquez:

"La vita non è quella che si è vissuta, 
ma quella che si ricorda
e come la si ricorda per raccontarla."

Ed è proprio così. Nel ricordare gli avvenimenti che abbiamo vissuto e che oggi ci hanno portato a essere quello che siamo, noi ristrutturiamo le nostre esperienze, le rendiamo più o meno significative, le distorciamo e le esasperiamo, le esaltiamo e le annacquiamo. Perciò può capitare di attaccarsi a fotografie o ad oggetti, quasi come per avere una promemoria su quel che è stato, quasi come per ricordarsi di ricordare.

La soluzione sta come sempre nell'equilibrio, nell'innata o acquisita capacità di saper scegliere cosa mettere nello zaino e cosa metter via (per dirla alla Ligabue).
Oggi, nel terzo del cammin di questa vita (un augurio che faccio a me stesso toccando ferro e tant'altro), sempre più frequentemente cerco di dedicar maggior tempo a gustare il sapore di ciò che mi capita e di quel che faccio accadere, questo rende il mio palato più sensibile, più capace di riconoscere gusti che in passato perdevo.

Magari un giorno, camminando nel personale museo dei ricordi mi renderò conto che intorno a me ci sono solo teche vuote, niente oggetti né quadri, solo il familiare odore del tempo che passa. Intorno il niente e dentro il mondo, tutto ciò che serve per rendere l'attimo sempre meno fuggente e sempre più presente.

giovedì 15 settembre 2011

Corri Forrest corri


"Quel giorno, non so proprio perché decisi di andare a correre un po', perciò corsi fino alla fine della strada, e una volta lì pensai di correre fino la fine della città, e una volta lì pensai di correre attraverso la contea di Greenbow. Poi mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui tanto vale correre attraverso il bellissimo stato dell' Alabama, e cosi feci. Corsi attraverso tutta l'Alabama, e non so perché continuai ad andare. Corsi fino all'oceano e, una volta lì mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui tanto vale girarmi e continuare a correre. Quando arrivai a un altro oceano, mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui, tanto vale girarmi di nuovo e continuare a correre; quando ero stanco dormivo, quando avevo fame mangiavo, quando dovevo fare... insomma, la facevo! (Forrest Gump")

Ho conosciuto un ragazzo che era stanco di rincorrere i fantasmi della vita, stanco di dare la caccia a sogni che prevedevano l'abbandono dei suoi sogni, era stanco di riempire le proprie giornate di minuti che si lasciavano alle spalle altri minuti, di ore che cancellevano altre ore; era stanco di trovare sempre nuovi amici senza che fossero veri amici. Questo ragazzo era consapevole che stava diventando più faticoso continuare a star fermo in attesa perenne che il giusto prendesse il posto dello sbagliato. Così, senza un motivo scatenante, privo di un momento a cui dare un significato, ha guardato negli occhi se stesso e ha fatto quello che in realtà sapeva di dover fare da tempo, ha smesso di camminare e a cominciato a correre.

La corsa è una metafora del modo in cui si sceglie di vivere la propria vita. Non ci sono trucchi dietro ogni falcata, si è soli con le proprie gambe e la propria tenacia, non ci sono motori che ti possono spingere più veloce né telai in carbonio che possono renderti la strada meno faticosa. Non ci sono tecniche da imparare per migliorare il responso del cronometro né ci sono compagni di squadra che ti possono aiutare a rifiatare. Non ci sono avversari a cui dare la colpa della tua sorte né finti compagni con i quali dividere successi che sono tutti tuoi. Sei lì, solo, con il paesaggio che ti osserva e con te che ricambi lusingato quello sguardo languido e familiare.

Quando si è giù di morale si può correre lontano da qualcosa, quando si è felici si può correre incontro a qualcuno, quando si è se stessi basta semplicemente correre, staccandosi dai mille falsi problemi che si sono depositati come scorie nella mente in ogni singolo giorno dove si è persa un'occasione per far del bene alla persona con la quale dovrai prima o poi fare i conti, te stesso.

Ti accorgi che tutto quello che ritenevi lontano dalla tua portata lo era semplicemente perché non avevi la volontà di allungare la mano nella giusta direzione, è un po' come pretendere di lenire il proprio dolore con una botta più grossa del male stesso che ti divora.

E allora smetti di girare intorno ai problemi e gli corri incontro, ti presenti a loro per quello che sei e non per ciò che vorresti essere e per quello che ti han fatto credere di diventare. Si scopre con piacere che non si hanno bisogno di passerelle per correre, non occorrono palchi dove salire per ritirare premi e applausi, perché le mani che battono alla fine di ogni corsa sono le tue, come sono tue le mille gocce di sudore che ti fanno brillare il viso e chiudere gli occhi, come è tuo il sale che si deposita sulle tue labbra e ti fa conoscere il sapore della fatica, dolcissimo.

Mentre sei li che corri non sei costretto a tenerti attaccato a pantaloni e gonne di chi è stato prima di te in pista, non hai bisogno di stringere i denti per fermare parole fuori luogo, e se mai ti prende la voglia, puoi gridare tutto ciò che ti passa per la testa, i vicini magari non capiranno ma le foglie degli alberi ci rideranno su. Non ci sono comportamenti da tenere a seconda delle situazioni e per rifocillarti basta mangiare quel che ti va, senza dover per forza riempire stomaco e mente con mangime da polli d'allevamento.

Certo, se corri da solo non arriverai mai primo, ma neanche ultimo, l'importante, come in tutte le cose della vita, è arrivare, senza perdersi per strada.
L'arrivo in fondo è lo stesso per tutti, nonostante l'uomo cerchi da sempre di scendere a patti con Dio e ancor più spesso di bussare alle porte della Scienza e della Medicina.

Eppur si muore, ma d'altronde meglio morire correndo che vivere strisciando

mercoledì 14 settembre 2011

La Pro Vercelli e la Pro Cervelli


Ieri sera è tornato Ballarò su Raitre e Crozza si è lanciato in un paragone improprio ma splendente di follia e realismo, ha definito l'Italia la Pro Vercelli del calcio che fu. Chi non è esperto di calcio d'epoca forse non sa che la gloriosa Pro Vercelli è una delle più antiche, celebri e titolate società calcistiche d'Italia e si è potuta fregiare, nella sua storia ultracentenaria, per ben 7 volte del titolo di Campione d'Italia (con l'ultimo scudetto vinto nel 1922). Oggi di quella gloriosa squadra resta solo nome ed albo d'oro, si ritrova infatti a giocare nei campi di quella che un tempo si chiamava Serie C (oggi lega pro), dopo essere fallita nel 2010 per inadempienze finanziarie.

Forse Crozza non lo sapeva fino in fondo, ma l'Italia è veramente la Pro Vercelli dell'Europa, un Paese che ha una storia gigantesca ed inarrivabile, che prima di tutti (assieme alla Grecia) ha portato la società nella modernità, che ha creato stile, ha creato arte, letteratura, poesia, musica, fino ad avere un ultimo sussulto di quel glorioso tempo che fu con la reazione inimmaginabile e bellissima alla tragedia portata dalla seconda guerra mondiale e dalla follia del fascismo.

Quel paese non esiste più; abbiamo vissuto di rendita (non certo finanziaria) grazie a ciò che hanno fatto le generazioni del boom economico, le formiche che hanno permesso al nostro paese di entrare tra i sette paesi più industrializzati del Mondo. Poi sono arrivate le cicale, il granaio si è svuotato, ma si è fatto finta che dentro ci fossero ancora tonnellate e tonnellate di provviste pronte per il futuro. Con il tempo è finita anche l'illusione del passato infinito. Oggi ci ritroviamo ai margini delle scelte politiche europee, ad elemosinare un aiuto alla BCE ed alla Germania affinché non ci spingano a dichiarare default, ossia un inglesismo che nasconde il ben più tragicomico fallimento o bancarotta.

Per chi si occupa della Cosa Pubblica forse è arrivato il momento di comprendere che l'unico modo di ridare slancio a questo benedetto Paese è mettere da parte la visione partitica della società, non si può e non si deve pensare solo alla propria "squadra", al proprio club di appartenenza, al proprio partito, perché può certo succedere di vincere campionati (parlo di elezioni ovviamente), ma poi se ci confrontiamo con il calcio che conta torniamo alla nostra misera dimensione nazionale, avviliti dal confronto con ciò che eravamo ed avremmo potuto essere.

Vincere per vincere è figlio di una cultura limitata alla staticità, all'incapacità di guardare al futuro. Selezionare la classe dirigente attraverso la pratica diffusa del fideismo e dell'accondiscendenza è come fare un settore giovanile con figli di papà piuttosto che con i campioncini in erba scovati dai talent scout delle segreterie locali. Se poi viene fuori che di Maradona non se ne vedono in giro, forse è perché semplicemente non giocano a calcio (o alla politica).

A ben penarci più che la Pro Vercelli dovremmo essere capaci di diventare la Pro Cervelli, nel senso che si dovrebbero creare le condizioni affinché giovani dotati e capaci possano dare il loro contributo all'Italia malata di oggi, piuttosto che vederli costretti ad emigrare all'estero o a ripiegarsi su se stessi.

Diversamente dal calcio però l'italiano deluso dal proprio club non riuscirà a godere dei fraseggi e dell'eleganza di squadre straniere come la Spagna campione del Mondo o il Barcellona, Il Manchester mai domo e il sempre tenace e vivo Bayern Monaco.
No, un italiano non ha di che esultare per i conti di una Cina che sta per arrivare sul tetto del mondo, per una Germania che nonostante tutto tiene botta alle botte, di un Brasile che sta andando oltre il calcio e sta entrando nell'economia.
No, noi eravamo l'Italia, noi eravamo l'ombelico del mondo, noi eravamo il Mondo, adesso non ci resta che giocare in un campetto di periferia ricordando quel che resta di noi.
Ora siam li, aspettando che passi la più lunga nottata che ci sia capitato di vivere, e poi magari chissà, la Pro Vercelli torna a vincere il campionato....

martedì 13 settembre 2011

Non è mica facile non andare a votare


Ieri sera il Tgla7 ha mostrato gli ultimi sondaggi relativi alle intenzioni di voto degli italiani.
il quadro è desolante se dovesse rivelarsi tale: solo il 69,7% degli intervistati ha epresso intenzione di voto e ciò si tramuterebbe nel dato più negativo in assoluto in termini di affluenza elettorale dal dopoguerra in avanti.
Basti pensare che mai un sondaggio di questo tipo aveva dato risultati cosi netti in termine di astensione, e il partito del non voto si confermerebbe primo partito con oltre il 30%.
I due partiti maggiori, PDL e PD, portano a casa rispettivamente un 27,3% e un 27,8% con il centrosinistra davanti al centrodestra di oltre sei punti percentuali.
Il terzo polo si attesta attorno all'11,5%.
Ancora una volta mi chiedo come sia possibile che in un Paese che ha visto l'inefficenza dell'attuale governo, il pressapochismo di una manovra fatta e rifatta cento volte, l'incapacità di prevedere misure strutturali diverse dal muoversi solamente chiedendo più tasse agli italiani, solo il 45% ritiene l'aternativa di centrosinistra valida ad un cambio di rotta.

La domanda è: indipendentemente dal proprio “credo” politico, non sarà giunta l’ora di chiedersi cosa abbia generato questa disaffezione? E chi sarà in grado di riavvicinare gli elettori alle urne?
Forse si dovrebbe smettere di parlare ai propri iscritti e pensare di andare oltre i propri elettori, si dovrebbe cominciare a parlare alla gente.

Certo, per vincere sarebbe sufficiente far si che i centristi non andassero con la destra, ma al venir meno di Berlusconi sappiamo tutti che la strada sarà quella del ritorno dei figliol prodighi alla casa madre. Ma forse qui vincere non servirebbe all'Italia come servirebbe invece quella rivoluziione culturale che non si vede all'orizzonte di nessun partito.

Io non so se questo governo sia stato il peggiore della storia repubblicana (il mio personale Oscar lo assegno a tutti quelli degli anni '80 che ci hanno regalato questo immenso debito pubblico), ciò che so è che ancora una volta i partiti, tutti i partiti, indipendentemente dal risultato delle prossime elezioni, vedranno diminuire in termini assoluti i loro sostenitori a vantaggio di chi deciderà consapevolmente di non recarsi alle urne.

il tempo si è fermato da oltre vent'anni, e già allora Gaber scriveva questo:

"E allora come si fa a tacciare di sterile menefreghismo uno che non vota? Potrebbe essere un rifiuto forte e cosciente di "questa" politica. No, perché non è mica facile non andare a votare. Soprattutto non è bello farlo così, a cuor leggero, o addirittura farsene un vanto. C'è dentro il disagio di non appartenere più a niente, di essere diventati totalmente impotenti. C'è dentro il dolore di essere diventati così poveri di ideali, senza più uno slancio, un sogno, una proposta, una fede. È come una specie di resa. Ma al di là di chi vota e di chi non vota, al di là dell'intervento, al di là del fare o non fare politica, l'importante sarebbe continuare a"essere" politici. Perché in ogni parola, in ogni gesto, in qualsiasi azione normale, in qualsiasi momento della nostra vita, ognuno di noi ha la possibilità di esprimere il suo pensiero di uomo e soprattutto di uomo che vuol vivere con gli uomini. E questo non è un diritto. È un dovere."

Io questo dovere continuo a sentirlo.

lunedì 12 settembre 2011

Il talento si impara dopo.....


Oggi è ricominciata la Scuola e io per il momento non ho avuto la fortuna di saperlo in maniera diretta, infatti non ho accompagnato figli al loro primo giorno tra i banchi e non ho la capacità di fare il bellissimo mestiere di insegnante.
L'ho saputo in maniera molto più marginale, vedendo bambini e ragazzi di diverse età entrare nel supermercato dove lavoro per comprarsi la merenda.

Questo post non ha assolutamente la velleità di fare un'analisi sullo stato della scuola italiana, non mi appoggerò a numeri e statistiche, non chiamerò in causa l'Ocse o l'Invalsi e non entrerò in tecnicismi e normative che possono essere sviluppati da specialisti ed esperti decisamente più competenti del sottoscritto.

Quello che però mi sento di dire è che mille dubbi mi accompagnano quando mi capita di leggere le domande di assunzione di alcuni ragazzi appena usciti dalla scuola superiore. Molti chiedono di spiegargli come si compila il modulo, qualcuno si lancia (alla voce "occupazioni svolte") nel ruolo di "barrista", e poi uscendo dall'ambiente di lavoro succede spesso che mi venga chiesto di spiegare il significato di un sostantivo o ancor più di un articolo di giornale (che raramento non è la Gazzetta dello Sport).

Io non so se la "colpa" sia della scuola in generale (quindi di tutti e di nessuno), ciò che so è che mi aspettavo un diverso risultato dalla scolarizzazione di massa degli ultimi vent'anni.
Non uso campioni statistici di rilievo e non voglio naufragare nel vizio italiano del "si stava meglio quando si stava peggio", ma questa situazione ha tanti responsabili, e non sono solo i ministri che si sono succeduti negli anni (sia quelli dell'Istruzione che dell'Economia); non può essere solo responsabilità di una parte del corpo docente né del nuovo approccio dei genitori di oggi alle responsabilità scolastiche dei figli.
Forse la situazione della scuola non è un sintomo di una malattia, ma la malattia stessa della società.

Mi è capitato di pensarlo ancora una volta stasera di fronte al Tg, dove stava andando in onda un servizio sul concorso di bellezza che a suo tempo lancio Ruby Rubacuori.
Una ragazza guarda fisso la telecamera e dichiara "Nella vita bisogna avere fortuna, il talento si impara dopo"..... Forse a scuola non gli è stato chiarito bene cosa significhi talento, o magari quel giorno era assente!


(auguri di buon anno scolastico a tutti coloro che credono che stare tra quelle quattro mura sia una missione)

domenica 11 settembre 2011

Diverso da chi?


Passano gli anni ma il ritornello è sempre lo stesso da parte del maggior partito di sinistra e della sinistra italiana in generale, ossia quello di autodichiararsi superiori moralmente rispetto a chi sta dall'altra parte del Parlamento.

E' veramente noioso il refrain che ogni volta mettono in campo diversi uomini del PD, dal Segretario ai Generali fino ai Soldati di frontiera, tutti convinti del fatto che essere di sinistra ti rende migliore eticamente e moralmente rispetto all'essere di destra.

Siccome non ho mai accettato la presunzione di chi manifesta la propria superiorità morlale appoggiandosi a crocifissi e ritenendo di essere portatori politici della giustizia di Dio (i nuovi democristiani, quelli che ancora oggi sopravvivono), non posso accettare nemmeno la pseudo convinzione di chi rivendica che l'onestà e la questione morale non tocchino il proprio partito se non in maniera marginale.
Si sostiene inoltre che è diverso (secondo Bersani) il moto e l'indignazione con la quale ogni singolo caso viene affrontato dentro il maggior partito di sinistra.

Ora vorrei capire se è più deprecabile essere convinti della propria 'diversità' o è peggio usare la questione morale come slogan politico per rivitalizzare un partito in difficoltà come tutti i partiti nell'ondata anti casta.

Ho amici di destra e di sinistra e conosco farabutti di destra e di sinistra, ho visto leccapiedi di destra e di sinistra e persone magnifiche di destra e di sinistra.
Chiamare in causa il povero Enrico Berlinguer è ingeneroso e di chiara matrice revisionista, perché quando lui parlò della questione morale lo fece guardando negli occhi TUTTI i partiti e non solo un'ala di Montecitorio.

VORREI SAPERE se i carrozzoni parastatali pieni di persone con curriculum inesistenti ma con genealogie e amicizie giuste, siano moralmente accettabili per chi ha la mente a sinistra.

VORREI SAPERE se è moralmente accettabile sentir sempre parlare di riduzione dei costi della politica e poi difendere istituzioni come le Province di cui già in Costituzione si era prevista la soppressione.

VORREI SAPERE se è accettabile chiedere la riduzione degli stipendi degli Onorevoli aspettando la chimera dei disegni di legge costituzionali. Forse non sarebbe meglio stabilire una cifra per il proprio stipendio e dare il resto in beneficenza o magari riversarlo direttamente nelle casse dello Stato, senza aspettare che lo facciano "gli altri"? (per non parlare della mai avanzata decisioni di rinunciare ai rimborsi elettorali aboliti per referendum e ai benefit per i parlamentari).

Per non continuare (gia mi sono ampiamente meritato l'appellativo di 'antipolitico'), vorrei solo far presente che agli albori della dottrina comunista tutti erano uguali per la società; oggi gli eredi di quella dottrina affermano invece che qualcuno è diverso, anzi, molti sono diversi, e sono tutti quelli che votano in una certa maniera.

Io credo che tutti siamo uguali di fronte al Mondo, e credo con ancor più convinzione che in fondo tutti siamo diversi di fronte alla società, perchè ciò che ci rende tali non è la nostra razza o il nostro corredo genetico, ma le nostre scelte (e non il nostro voto).

Nota politica: credo che difficilmente un partito di opposizione potrà mai diventare maggioranza se continuerà a trattare con presunzione quegli elettori da cui non ha avuto il voto. Se mi sbaglio ne sarò felice dato che ancora oggi voto PD (e non mi sento 'migliore' per questo).

sabato 10 settembre 2011

10 settembre 2001


Lo so, pensare a quello che successe l'11 settembre di dieci anni fa, le proprie sensazioni, la propria incredulità di fronte alle immagini che provenivano dai canali di tutto il mondo, è l'emozione più sconvolgente che la Storia ci abbia 'regalato' dal dopoguerra ad oggi.
Sono stati i dieci anni più veloci che siano mai trascorsi (talmente indelebile e nitido è il ricordo di quel giorno); riviverli e redigere un bilancio del nuovo Mondo è quanto di più facile e immediato ci possa capitare di fare in questi giorni, e non per forza di cose occorre essere originali e creativi, non serve fingere che quella data non abbia cambiato la Storia, perché l'ha fatto, cosi come ha cambiato anche la nostra vita.
Non posso però fare a meno di lanciarmi nel ricordo di quel che vissi un giorno prima di quel fatidico 11/09, quell'anonimo 10 settembre 2001 che suo malgrado è stata la vigilia dell'Avvenimento senza nemmeno saperlo.

Terzani lo chiamò il giorno mancato, e lo descrisse cosi: "quel 10 settembre 2001 passò senza che me ne accorgessi, come non fosse nemmeno stato nel calendario. Peccato. Perchè per me, per tutti noi - anche per quelli che ancora oggi si rifiutano di crederlo - quel giorno fu particolarissimo, uno di cui avremmo dovuto, coscientemente, gustare ogni momento.Fu l'ultimo giorno della nostra vita di prima."

Sembra quasi profetico, ma ricordare quel giorno come il giorno mancato mi appare come sottolineare che la nostra vita altro non è che una serie d giorni mancati intramezzati da eventi che caratterizzano il nostro percorso. Spesso questi eventi sono frutto di scelte o accadimenti personali, e talvolta sono li ha consegnarci una parte da comparse nel grande teatro della Storia dell'Uomo come accadde con l'attentato alle Torri Gemelle.

Mi piacerebbe che la Storia ci riservasse altri ruoli, mi piacerebbe che oltre ai tanti 11 settembre potessimo dare maggior significato agli innumerevoli 10 settembre che ci ritroviamo spesso a vivere, e per farlo non servono aerei kamikaze e bombe stragiste, ma qualcosa di ancor più deflagrante e potente, la consapevolezza che può tornare il tempo della gente che "fa la storia".
Un umanesimo nuovo, un nuovo risorgimento, un '68 diverso che bruci le incertezze e le paure di questo inizio millennio, un nuovo patriottismo che ci permetta di unire gli Italiani e di sentirci Europei non solo di fronte ai Tg.

Non so se tutto questo sarà possibile, non so se avrò la fortuna di viverlo, ma so che mi piacerebbe tanto che accadesse. Se non succederà spero solo di essere all'altezza di recitare ogni giorno il mio personale 10 settembre, con la voglia di non renderlo un giorno mancato per la seconda volta.

venerdì 9 settembre 2011

Ancor prima della prima fila


Manifestazioni, assemblee, seminari, lezioni, , riunioni, eventi, e chi più ne ha più ne metta.... Ogni occasione è buona per guardare le cose da un'altra prospettiva, che non è quella del pubblico, ma al contrario, quella del palco verso la platea.

Ci si accorgerà che spesso, molto spesso, le caratteristiche di chi siede in prima fila sono abbastanza comuni, e sfociano frequentemente in due parole che le riassumono bene: protagonismo e presenzialismo.

Si tratta in pratica della costante volontà di assistere agli eventi di rilievo più per mettere in mostra se stessi che per l'interesse alla manifestazione in sé.. Ci si gira con fare scaltro alle proprie spalle per vedere chi c'è, si scrutano abiti, volti e compagnie di chi ci si trova alle spalle, poi si diventa rigidi nello sforzo di non assecondare ulteriormente la voglia di voltarsi indietro. L'importante non è essere in sintonia con il motivo dell'incontro collettivo, ma esserci e basta, magari curando nei dettagli il proprio guardaroba giusto per non passare inosservati (ma senza esagerare!!!).

"In prima fila si segue meglio", "in prima fila mantengo maggiormente la concentrazione", "in prima fila mi sento parte dell'evento e coltivo un rapporto diretto con i protagonisti".... Ogni motivazione è ovviamente plausibile, sincera o meno, ma ammetto che ho una maggior simpatia per gli ultimi o per i centrocampisti (i mediani), coloro che non hanno bisogno di farsi ammirare, di mostrare la loro importanza, o ancor meglio di mascherare la loro insicurezza apoggiando le loro natiche sulla sedia del protagonismo da attore di seconda fascia.

Se mi chiedessero che caratteristica vorrei che mi fosse associata un secondo dopo la mia "dipartita" sicuramente non esiterei a parlare di idealismo, ma subito dopo non potrei mancare di aggiungerci l'umiltà.
E' vero che per essere umili non occorre essere ultimi, anzi, spesso serve solo non sentirsi primi..... Ecco, vorrei veramente un giorno poter arrivare in Via dell'umiltà (da non confondersi vi prego con la strada sede di Froza Italia!!!!!) sperando di non perdermi tra i vicoli di Corso dell'Idealismo.

Ora sfondo le transenne, eludo la sorveglianza, prendo alla sprovvista gli organizzatori e salgo sul palco con un cartellone in mano che recita così: "PER ESSERE IN PRIMA LINEA NON OCCORRE STARE IN PRIMA FILA"

giovedì 8 settembre 2011

Una Nazione fuori dal Comune


Oggi ho assistito con grandissimo piacere e un pizzico di nostalgia a cosa significa sentiri parte di una comunità.
Un piccolo paese si è destato da un torpore troppo a lungo represso in un sonno profondo.
Molti dei suoi abitanti hanno fatto l'unica cosa che sanno fare le persone di buona volontà, si sono girati a destra e sinistra ed hanno trovato altre mani tese verso la loro direzione... l'effetto domino ha fatto il resto.
Vedere quei volti e quei sorrisi, vedere splendidi sessantenni con lo spirito di quando li hai conosciuti trentenni è qualcosa di emozionante e giusto.
La sera del dì di festa sarà solo un appendice ad una festa che in realtà si è già compiuta, ed ha un sapore antico ma modernissimo.

No. non servono Municipi per sentirsi cittadini, non servono gonfaloni e stendardi per sentirsi importanti, né serve appellarsi ad una storia che in realtà è solo li a testimoniare le divisioni secolari di una Nazione che mai si è fatta Patria.

Si può essere Comuni con meno di mille abitanti, ma si può ancor meglio essere persone fuori dal comune mettendo in campo il desiderio e la volontà di appartenenza a qualcosa che fa parte di noi ma è un po' più di noi, la nostra comunità.

L'Italia dei Comuni ha oggi troppo spesso lasciato spazio all'Italia dei campanili, ma le campane si sa, non sempre suonano a festa, qualche volta lo fanno a lutto, e le rivendicazioni di chi alza barriere e si oppone a fusioni con altre realtà circostanti è figlia della perenne visione anacronistica e immatura della storia tipica del Belpaese.

Io mi sento a casa di certo a casa mia, ma ancor più nella casa di chi sa trattare gli ospiti come fossero appartenenti alla loro stessa famiglia, è li che sta il mio tetto.

mercoledì 7 settembre 2011

Una foto ai miei pensieri

Ho voglia di raccontare la storia di una ragazza che non conosco ma che in queste ultime settimane sta diventando abbastanza famosa per chi 'frequenta' la rete.
Si chiama Anna Lisa è se cliccate sul suo nome scoprirete che è famosa (suo malgrado e sua volontà) perché ha un cancro e perché ha deciso di raccontarlo, ogni volta che può, con la forza della disperazione e il bisogno di sentirsi normale.

Io non conosco Anna Lisa ma proprio per questo il suo nome diventa per me il nome di tutti coloro che stanno lottando per qualcosa di più serio rispetto ai rivoli di cazzate e scemenze in cui ci si perde tutti i santi giorni.

Certo, non occorre ammalarsi per capire e pesare l'importanza della propria vita, ma l'esperienza di chi è colpito da questo nonsenso può diventare uno strumento per riappropriarci, almeno per un momento, della dimensione reale della nostra esistenza. Come tutti gli strumenti, questi diventano utili se si ha la voglia e la capacità di usarli.....

Ci tengo a chiarire che non voglio che queste mie parole servano a dire:
"cosa vuoi che sia
passa tutto quanto
solo un po' di tempo e ci riderai su

e il mondo che ti dice
"tu pensa alla salute"
e c'è chi pensa a quello
a cui non pensi tu "


Ho visto gioia e fame di vita anche in chi (come Anna Lisa), soffre per un cancro, e in chi è in pieno possesso delle proprie facoltà fisiche e mentali. Ho visto superficialità e senso di abbandono in corsie di ospedali e sugli sgabelli di un bar (e anche allo specchio se devo dirla tutta).
No, non è una flebo attaccata al nostro braccio che ci farà trovare il senso a questa storia. io non ho nessuna intenzione di passare la mia vita salutando qualcuno dicendogli che 'tiro avanti', che penso alla salute (perché tanto c'è chi pensa a quello a cui non penso io).

No signori. E' proprio pensando anche a tutto il resto che si da un senso a chi non ha la fortuna di stare bene, a chi vorrebbe avere il secondo tempo di una partita giocata male nei primi quarantacinque minuti. ma per giocare quella partita occorre spogliarsi prima di scendere in campo, spogliarsi di ogni convinzione, abitudine, maschera, e fare l'unico gesto che ci rende uomini, un gesto semplicissimo ma difficilissimo: pensare

(PS non ho l'assurda pretesa di essere profeta di nessuno, diciamo che il primo e unico discepolo di queste parole sono io e scrivere è lo strumento che utilizzo per fare una foto ai miei pensieri... Buona fortuna Anna Lisa)

martedì 6 settembre 2011

Sciopero sig. Generale?


Oggi era giorno di sciopero. "lotta dura senza paura", "non mi vesto e manifesto", ecc.
Uno sciopero le cui motivazioni nascono dalla vergogna con la quale il nostro governo sta affrontando il secondo tempo della più grossa crisi economica del dopoguerra, mettendo a soqquadro senza alcuna necessità lo Statuto dei Lavoratori e non trovando minimamente la forza e il coraggio di mettere mano a riforme veramente epocali di cui il nostro Paese avrebbe bisogno.
Detto questo io oggi ero come sempre al mio posto di lavoro, e come me tutti i miei colleghi e le persone che durante la giornata mi è capitato di incorciare per motivi professionali.
Perche? Perché quando la casa brucia in Italia ancor prima di prendere idrante e coraggio si pensa a distribuire colpe e lanciare rivendicazioni.

Perché è questo che sta succedendo nel nostro triste Paese, tutto brucia, ma non si spengono gli incendi con le molotov. Certamente la Cgil e chi ha scioperato oggi sosterrà che non ci sono altri mezzi per opporsi alle politiche del Governo, che chi lavora asseconda la deriva, ma la bellezza della democrazia è proprio la legittimità di avere posizioni diverse senza che nessuno obblighi le parti a tenere un unico comportamento.
Il Sindacato giustamente fa il Sindacato, al contrario i Partiti dovrebbero ricordarsi di essere qualcosa di diverso, dovrebbero ricordarsi che è meglio evitare conti e calcoli sulla convenienza elettorale di appoggiare o meno uno sciopero, senza pensare a cosa vorrebbe il proprio elettorato di riferimento.

La CGIL ha quasi tre milioni di iscritti tra i pensionati e poco più di due milioni e mezzo di iscritti tra i lavoratori attivi. Se si pensa che dei due milioni e mezzo di lavoratori attivi circa un terzo è rappresentato da lavoratori del comparto pubblico e che i lavoratori sotto i 35 anni sono meno di 100.000 abbiamo un quadro Generale di quella che è la situazione del maggior Sindacato Italiano che per oggi ha indetto lo Sciopero Generale.
In Italia i lavoratori attivi (precari e non), sono circa 23 milioni quindi proclamare uno sciopero e etichettarlo come Generale rappresentando circa il 10% della forza lavoro in Italia è abbastanza discutibile, a meno che il Generale forse non sia la Camusso che ha indetto lo Sciopero....
Fatto sta che ogni singolo sindacato ha legittimamente la facoltà di esercitare qualsiasi forma di mobilitazione ritiene più opportuna per raggiungere i propri obiettivi, ma il quinto sciopero generale dal 2008 ad oggi forse sarà un ulteriore momento che servirà a scavare ancor di più il solco tra il paese reale e le difficoltà di un sindacato che negli ultimi vent'anni (cosi come un po' tutte le istituzioni in Italia), ha perso la bussola che lo legava alla società.... o ancor peggio la società semplicemente non esiste più ed è solamente un insieme di individui (soprattutto a causa del malfunzionamento delle Istituzioni).

Sono andato lungo, ma ripeto: rispetto per chi protesta, rispetto per chi compie altre gesta

lunedì 5 settembre 2011

Spengo le candeline e accendo la radio

Questo post è un po' fuori dallo schema dell'ultima settimana, ma oggi, 5 settembre 2011, non posso fare a meno di andare leggermente controcorrente e dire che personalmente non mi piace l'uso di citazioni, aforismi, ricordi e memorie di persone che sono nate o morte in un determinato giorno.
Dico questo perché oggi la rete è piena di Rapsodie Boemiane e Insinuazioni, trabocca di Un Tipo di magia e si perde nelle onde di Radio GaGa. Ebbene si, oggi è il compleanno di Freddie Mercury, ma non serve una data per ricordare un genio della musica, della poesia, del cinema, della società, della scienza.
Certo, le date sono appigli per non perdere la nostra memoria, ma diventano melassa gelatinosa quando le trasformiamo in cornici per mettere in mostra noi stessi ancor prima del messaggio che vogliamo dare e mandare.

Freddie, Micheal, Elvis, John, Jim, Kurt, Giorgio, Fabrizio, Luigi, e ancora tanti e tanti altri, vivono oltre la loro dimensione terrena attraverso la loro arte, e non hanno bisogno di candeline né di lumini accesi, hanno bisogno solo di ciò
che hanno lasciato affinché LO SPETTACOLO VADA AVANTI.....

Per tutti coloro a cui invece piace festeggiare compleanni e ricorrenze basta ovviamente non tener conto di questo soggettivo pensiero e soffiarlo via, proprio come si soffia sul fuoco di una candelina.....

domenica 4 settembre 2011

Sul nido del cuculo c'è ancora chi vola


tutti pensarono dietro i cappelli lo sposo e' impazzito oppure ha bevuto...
Ma io non ci sto più, e i pazzi siete voi


E' una domanda ricorrente, chi sono i pazzi? Immaginamo un uomo qualunque che entra da solo dentro quello che una volta chiamavamo manicomio. Qualcuno dall'alto ha la possibilità di osservare la scena; sicuramente faticherebbe a classificare come 'pazzi' coloro che sono in stragrande maggioranza all'interno dell'edificio, forse il pazzo sarebbe invece l'osservatore (presunto sano di mente) che dalla strada si trova catapultato in un universo a lui sconosciuto, popolato di pensieri e abitudini lontante dalla sua cultura.

Oggi i pazzi sono coloro che si mettono le ali dell'idealismo sulle spalle, sognano un Paese migliore, sognano una società migliore, ma volano troppo alto e finiscono come novelli Icari a bruciarsi sogni ed ali.
Eccoli i pazzi post moderni, quelli che finiscono con l'essere etichettati come utopisti, idealisti, rivoluzionari... e pensare che la sola rivoluzione che vorrebbero sarebbe quella di ritornare all'uomo, vorrebbero quella solidarietà tra persone che la contemporaneità ha completamente cancellato, vorrebbero che la beneficenza venisse fatta realmente senza ritorno di immagine o pacche sulle spalle, vorrebbero che si pagassero le tasse non per paura della Guardia di Finanza ma per un patto di lealtà con lo Stato, vorrebbero che ogni cosa ritrovasse un valore e non avesse solo un prezzo, e vorrebbero che gli interpreti di queste loro aspirazioni fossero quelle istituzioni che una volta si chiamavano Partiti, e che oggi hanno le sigle più svariate per aggirare l'ostacola della responsabilità storica di chi li ha preceduti (salvo il Pd che ancora non è partito pur chiamandosi 'partito').....

Vorrebbero anche che non si sentissero accusare di antipolitica solo perché hanno idee diverse da chi sceglie di stare dentro un partito, perché è un po' come per il discorso sui pazzi, chi è antipolitico? Gli pseudo partiti post moderni o chi non riesce a recitare la propria parte dentro strutture nepotiste, gerarchiche e lontanissime da selezione meritocratica?

Ci si trova così a camminare in quei splendidi fotogrammi di puro cinema alla Sergio Leone, dove si potevano ammirare cittò western spettacolari senza sapere che dietro la facciata c'erano solo finzione e cartone. Questo sono oggi le istutuzioni per gli "indignati" del Mondo. Ma qualcuno preferisce chiamarli PAZZI